Il ginocchio sul collo. Portelli e il razzismo endemico della società americana

Alessandro Portelli, Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari, Donzelli Editore, pp. 208, euro 17,00 stampa, euro 9,99 epub

“S’è fatto male qualcuno?”. “Nossignora. È morto un negro”.

Comincia così, con un lapidario scambio di battute tratto dal celebre romanzo di Mark Twain Huckleberry Finn, il libro di Alessandro Portelli Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari, edito dall’editore Donzelli.

Apprezzato docente di letteratura anglo-americana, tra i principali teorici della storia orale, studioso di musica popolare e autore teatrale, Portelli è certo uno degli intellettuali che hanno più titolo per avventurarsi nell’analisi di una realtà complessa e contraddittoria come quella degli Stati Uniti d’America, non da ultimo per la conoscenza diretta più che cinquantennale che può vantare. Il volume raccoglie e amalgama pagine nuove e interventi apparsi su quotidiani e riviste, aggiornati e arricchiti da fonti di riferimento. A tale base cronachistica, che radica il discorso nella fattualità, si affianca una scrittura saggistica ancorata nella storia e nell’immaginario (letteratura, musica, cinema): i due approcci convergono nel tentativo di mettere a fuoco un mondo che qui da noi assume spesso rappresentazioni distorte e false, ammantate d’una retorica impiastricciata da letture ideologiche e demagogiche di giornalisti e commentatori privi delle cognizioni e del bagaglio critico necessari a tracciare un quadro veritiero di quello che sta accadendo (e accade da secoli) negli USA.

Dato di partenza è l’assassinio di George Floyd da parte di un poliziotto avvenuto a Minneapolis il 25 maggio 2020, evento che ha portato a galla il suppurante intreccio di contraddizioni e ingiustizie che segnano la realtà americana e il nostro tempo, determinando il più grande movimento di massa della storia degli Stati Uniti. Nell’immagine icastica dell’agente col ginocchio piantato sul collo della vittima, Portelli intravede un che di mitico: “San Giorgio che calpesta il drago sconfitto, la divinità purissima che schiaccia il serpente”, figure “della vittoria della virtù sulla bestia, dello spirito sulla natura, della civiltà sul mondo selvaggio”. E, naturalmente, “del bianco sul nero”. Il ginocchio sul collo è insomma “la materializzazione della forma attuale dei rapporti di dominio, nuda violenza […] tra chi sta sopra e i ‘subalterni’”. Dunque, per strada sono scesi coloro che “sempre più si sentono sul collo il ginocchio mortale della disuguaglianza crescente, della precarietà, dello svuotamento della democrazia, e di una violenza poliziesca diffusa che colpisce soprattutto neri, nativi e latini”, persone “senza diritto di parola, senza voto e senza rappresentanza”.

Da questa tragica vicenda, ripercorrendo a ritroso la lunga serie degli atti criminosi perpetrati dalle forze dell’ordine su inermi cittadini e le rivolte degli afroamericani, il libro mostra come la morte di George Floyd sia solo l’ultimo episodio di una storia secolare, lungamente rimossa. Perché il razzismo è come “il pulviscolo nell’aria”, per citare la suggestiva immagine della star del basket Kareem Abdul-Jabbar: sembra invisibile ma permea di sé ogni aspetto della società americana. È un elemento endemico nelle forze di polizia, e si nutre “della complicità di tutte le istituzioni: i tribunali, il governo, l’America intera non sono in grado di garantire non dico la parità ma almeno la sicurezza elementare della popolazione afroamericana”. La risultante di questo razzismo sistemico è “che non ti uccidono per quello che fai, ma per quello che sei”.

I temi, affrontati con sguardo storico penetrante, prendono le mosse dal ruolo della polizia in America, nata “come forza destinata al controllo territoriale delle classi subalterne e soprattutto degli afroamericani”, funzione poi intrecciatasi con la sindrome paranoica e militarista cresciuta smisuratamente dopo le guerre del Golfo e l’11 settembre: in nome della “sicurezza nazionale” la si è armata “letteralmente come un esercito in guerra”, a tal punto che essa agisce come un corpo separato, non soggetto alla legge che dovrebbe tutelare. A ciò fa seguito, nell’analisi di Portelli,  quella “sanzione quasi istituzionale” del razzismo, il cosiddetto racial profiling: l’abitudine degli agenti a utilizzare il colore della pelle di una persona tra i parametri per ritenerla sospetta, assumendo l’appartenenza etnica come indice della propensione ai comportamenti criminali: “La presunzione di innocenza si rovescia, sei colpevole fino a prova contraria”. La morte del diritto.

E ancora, si rintracciano le peculiarità storiche e sociologiche di quella nazione: l’ossessione per le armi; il tema dei “corpi neri fuori posto”, cioè la segregazione residenziale, dove la razza si incrocia con la classe sociale. Qui la figura del nero violentatore, mai scomparsa dall’immaginario americano (ma anche dal nostro, come Macerata insegna), rinvia direttamente agli anni dei linciaggi di massa, fra la guerra civile e gli anni Trenta del Novecento. Il mito  paranoico degli afroamericani che vogliono impadronirsi dell’America si incrocia con l’ossessione della purezza della razza bianca e il terrore della miscegenation, che qui da noi trova il corrispettivo nella fobia per “l’invasione” migrante.

L’analisi della realtà americana di Portelli rimanda di continuo alla situazione italiana, elemento che conferisce allo studio un respiro ancor più ampio. Del resto, la violenza di Stato riguarda anche noi, come stanno a testimoniare i tanti tragici casi che hanno insanguinato questi anni (Cucchi, Aldrovandi, Magherini, Sandri), i drammatici episodi come quelli occorsi a Genova nel 2001, i sinistri riverberi del suprematismo bianco nei fatti di Macerata: come in America, anche in Italia non s’intravede “un’uscita dal razzismo del senso comune”.

Un’intera sezione del libro è poi dedicata all’acceso dibattito sulle statue abbattute. Partendo dall’assunto che “abbattere e sostituire i simboli del potere è una pratica che sta alle radici della democrazia”, Portelli fa notare che tirare giù una statua rappresenta l’attacco “ai luoghi e alle cose che materialmente rappresentano il dominio”. Il discorso è anche eminentemente storico, poiché bisogna prendere consapevolezza del valore manipolatorio di un monumento: “Le statue di cui discutiamo, lungi dallo svolgere una funzione di memoria storica, congelano la storia in un passato monumentale spesso falsificato e negano tutta la storia venuta dopo”.

Ma la rimozione di questo “equivalente simbolico del ginocchio sul collo”, di questi “segni di dominio e possesso del territorio”, non è la sola soluzione immaginabile: altro modo sarebbe mutare il senso, la percezione, la lettura che si dà ad una storia controversa. Per esempio, aggiungendo scritte e spiegazioni, cancellando falsità e parole offensive, impedendo così che il monumento o ciò che esso rappresenta si reimmetta nel circuito significativo originario. Anche qui si rimanda alla realtà italiana, citando come lampante esempio le scritte mussoliniane e l’obelisco nella zona romana del Foro Italico: la possibilità di riscrivere quei segni che non si possono cancellare, di storicizzare i monumenti fascisti che per varie ragioni non si possono abbattere.

In definitiva, la profonda conoscenza storica, sociologica, antropologica della materia esaminata, l’acume critico e la consuetudine all’analisi testuale e dell’immaginario, permettono ad Alessandro Portelli di scardinare le stanche banalità che si vanno ripetendo sui media circa la realtà americana, di scavare attraverso gli strati culturali depositati nella sua identità nazionale, fino a raggiungere quelle individuali e politiche.  Soprattutto, si fa sentire in queste pagine la voce di un umanesimo davvero universale, l’indignazione che trae alimento dalla consapevolezza dell’ingiustizia diffusa che governa il mondo: “Fino a quando continueremo a pensare che le vite dei neri contano solo per i neri, che la Shoa sia un’offesa che riguarda solo gli ebrei, che la strage di Orlando (49 vittime l’11 giugno 2016) è una questione dei gay, che gli assassini di polizia e gli assassini razzisti siano offese a una ‘razza’ e non offese all’umanità – fin quando la sollevazione contro queste schifezze non sarà universale, anche la nostra rabbia non sarà che parole e polvere”.

Prendere coscienza di questo appello, dirigerlo verso azioni concrete, è un dovere di tutti se si vuole davvero costruire un mondo migliore.

Intervista ad Alessandro Portelli