Michela Murgia / Raccontare la sua voce

Michela Murgia, Anna della pioggia, Einaudi, pp. 274, euro 19,50 stampa, euro 10,99 epub

Anna della pioggia è molto più che una raccolta di racconti: è una costellazione di voci, una geografia affettiva e politica, una mappa dell’immaginario che Michela Murgia ha abitato e costruito in anni di scrittura militante e poetica. È un libro postumo, sì, ma non malinconico: è pieno, vivo, urgente. È un libro che ci raggiunge nel tempo giusto — un tempo in cui le parole sembrano gridare per essere ascoltate, e dove la molteplicità di sguardi è non solo un valore, ma una necessità democratica.

Il titolo, tratto dal racconto d’apertura, racchiude già molto del suo spirito. Anna della pioggia è la figura liminare di una donna che corre nel temporale, quasi danzando tra le crepe del reale, accompagnata da pensieri minimi e rivoluzionari: una lavastoviglie, un pupazzo, l’istinto di fuga. In quella corsa che non è solo fisica, ma simbolica, emerge una condizione esistenziale — il bisogno di attraversare le proprie stanze interiori, i propri dissesti, per potersi dire vive. È una fuga dal dovere e dalla domesticità imposta, ma anche un’epifania. «Non c’è nulla che sia davvero tuo se devi chiederlo».

Questo libro, curato con attenzione filologica e affetto narrativo da Alessandro Giammei, raccoglie racconti disseminati in epoche diverse della vita e della carriera dell’autrice: testi scritti per festival, per blog, per radio; testi regalati ad amici, racconti letti in pubblico e poi lasciati scivolare nell’oralità; e testi inediti che non avevano ancora trovato casa. Ora la trovano qui, in un libro che è anche, forse soprattutto, casa comune. Perché ognuno di questi racconti è una porta socchiusa, una finestra aperta su un mondo che riconosciamo come nostro anche quando parla di voci e luoghi lontani.

La varietà di stili e registri è sorprendente, ma mai dispersiva. Ci sono racconti in forma di favola, come quello in cui una bambina vive la sua prima vendemmia tra adulti che parlano con il corpo e con i silenzi. C’è l’ironia tagliente di una voce narrante che osserva con lucidità il linguaggio dell’autorità e le sue maschere. Ci sono le riscritture mitiche di figure femminili come Elena di Troia e Morgana: donne che, nei testi classici, sono state oggetti di narrazione e che qui invece si raccontano da sole, rivendicando parola e autonomia. «Le parole che non si possono dire trovano altre forme per esistere».

Una costante è la centralità del corpo: mai corpo astratto, idealizzato o punito, ma corpo vissuto, abitato, trasformato. Corpo queer, corpo malato, corpo che ama, corpo che dice no. La maternità – così spesso trattata nella nostra cultura come destino – diventa qui possibilità, scelta, costruzione affettiva. Famiglia non è necessariamente sangue, ma alleanza, cura, responsabilità condivisa.

Come già aveva fatto con potenza in Ave Mary e Istruzioni per diventare fascisti, Murgia non smette, neppure in forma breve, di interrogare i meccanismi del potere: chi ha diritto alla parola, chi ha diritto a esistere, chi può essere ascoltato? La scrittura si fa strumento di restituzione, di riscatto, di riscrittura del mondo. Ma non lo fa con toni moralistici. Lo fa con la forza dell’intelligenza emotiva, con un’ironia acuminata, con una tenerezza che non scade mai nel sentimentalismo.

Centrale, come sempre, la Sardegna: non come esotismo da cartolina, ma come luogo fondante della lingua, della memoria e della resistenza. La Sardegna di Murgia è radice e ferita, suono e silenzio. I racconti sardi della raccolta hanno l’odore della terra, il ritmo orale delle storie tramandate, ma si intrecciano a temi universali. In questo senso, anche ciò che è apparentemente locale si fa globale: parla a chiunque abbia mai sentito di non appartenere, di essere “fuori campo”. «Di storie ne servono molte, moltissime, per non diventare schiavi di un solo punto di vista».

C’è anche, in filigrana, la consapevolezza della fine. Alcuni racconti parlano del morire, del lasciare andare, della trasformazione. Ma anche qui, la morte non è mai tragica o vuota: è un passaggio, una soglia, un cambio di stato. Persino una falena che resuscita può essere un miracolo, se la si guarda con gli occhi giusti. E Murgia ha sempre avuto questi occhi, capaci di vedere oltre la superficie delle cose, di cercare il significato nel dettaglio minuscolo, nella crepa, nella fenditura. Anna della pioggia è dunque un lascito, ma non un addio. È una continuazione. Un libro che si può aprire a caso, rileggere, tornare a visitare. È un’opera che dice che le storie, se ben raccontate, non muoiono mai: si depositano, come pioggia leggera, nei solchi della memoria. «Una voce, anche quando tace, continua a esistere nella memoria di chi l’ha ascoltata». E noi, che l’abbiamo ascoltata, non possiamo che continuare a raccontarla.