Michele Mari / La fuga delle cose

Michele Mari, Locus Desperatus, Einaudi, pp. 136, euro 18,00 stampa, euro 9,99 epub

L’ultima fatica di Michele Mari ha un presupposto e un antecedente molto esplicito: si tratta di Asterusher: autobiografia per feticci, edito da Corraini nel 2015, sorta di atlante fotografico delle case e delle memorie dello scrittore attraverso gli oggetti, i feticci, che le popolano e danno loro forma. Il romanzo appena uscito non è che la trasposizione narrativa, la fantasmagorizzazione, di quelle premesse biografiche cristallizzate in un’oggettistica memoriale e talismanica la cui natura hantée era già stata apertamente dichiarata nel trattatello Fantasmagonia, contenuto nella raccolta di racconti omonima del 2012. Alcuni oggetti immortalati nelle foto di Asterusher li ritroviamo pari pari nel nuovo testo, non ridotti a mero armamentario scenografico ma trasformati in veri e propri personaggi centrali della storia: così l’omino Michelin, l’insegna metallica col teschio e la scritta “Chi tocca muore”, la collezione di targhette numeriche in ferro smaltato trafugate dagli attaccapanni dello spogliatoio di una miniera dismessa, il salgariano kriss nel suo fodero, e così via.

Ogni casa, dice sostanzialmente Mari, diventa la borgesiana casa di Asterione, il labirinto – rifugio e prigione – di cui ognuno di noi è il Minotauro, la Casa Usher le cui falle e incrinature verifichiamo quotidianamente nel progressivo sgretolamento della nostra identità, la Hill House o la Bly Manor di cui siamo i recalcitranti revenants. Sono solo gli oggetti che ci costituiscono, frammenti di memoria e di tempo rappreso che fanno di noi quello che siamo: se spariscono gli oggetti raccolti pazientemente negli anni a testimoniare il nostro passaggio, la nostra presenza, non resta più nulla di noi, come nulla resta della cipolla sfogliata che il Buddha usa a metafora del concetto di anatta, non-anima. Tutto il composto si scompone, lavorate alla vostra salvezza – dicono queste siano state le ultime parole del Buddha morente.

Ha molto di buddhista il romanzo di Mari, o forse di antibuddhista: invece che non aggrapparsi e lasciar andare, abbandonarsi impassibile al flusso di anicca, l’impermanenza, e al vuoto, il protagonista (una parodia di Mari stesso), lo riempie all’eccesso e rifiuta ogni liberazione dal fardello della personalità, per esercitare un tortuoso e disperato rituale di tutela dal nulla, la persistenza di un io che a stento esiste, costituito com’è solo da cose e grumi di oggetti, ultracorpo di sé stesso. Così irresistibilmente umoristica (in senso pirandelliano) e visceralmente visionaria risulta la descrizione finale della barricata apotropaica costruita dal minacciato inquilino per ripararsi dall’home invasion delle forze estranee: «al centro Nkonde, ovviamente, sopra un adeguato piedistallo. Ai lati, un po’ a destra un po’ a sinistra, Bibendum-Michelin, la zanna di capodoglio (1830!), il puntale agricolo, la pressa tipografica (quaranta chili), il vecchio quadro elettrico (“Luce”, “Forza”) e, su alcuni tavolini, il rospo mummificato, la radice di mandragola, la targa “Chi tocca muore”, il kriss malese insieme ad una scelta dei miei coltellini e tagliacarte più appuntiti e taglienti; inoltre, il full agli assi, il poker di donne e la scala reale all’asso di cuori. Dietro questo ferro di cavallo, alle pareti, le locandine dell’ispettore Callaghan e del braccio violento della legge, più una tavola originale di Magnus raffigurante Necron […] Ai piedi di queste pareti, disposti in modo che ognuno offrisse alla vista il piatto di copertina, alcuni libri scelti a ragion veduta: Vathek, Dracula, i racconti di Poe, L’uomo della sabbia di Hoffmann, i racconti di Lovecraft, Moby Dick, It, L’altra parte (i Canti di Maldoror invece, per punizione, li lasciai in corridoio) e gli astucci di due film di Peckinpah, Il mucchio selvaggio e, giusto per contrapporla al gesso, La croce di ferro. Per il momento poteva bastare».

Se lo stile flamboyant di Mari compie, come sempre, pirotecnie più che gaddiane fra registri aulici e  colloquialismi volgari, la storia che racconta – il cui tema di invasione, possessione ed espulsione tanto deve ai Body Snatchers di Jack Finney (e di Don Siegel), quanto a Casa tomada di Julio Cortàzar –, evoca nelle atmosfere surreali e ironiche a base di oggetti parlanti e animati, metamorfosi  e slittamenti di identità, un fantastico-grottesco che rimanda a Hoffmann, a Gogol o al Bruno Schulz di Le botteghe color cannella. Ancora una volta Mari, giocoliere della parola, riesce però a stupirci e confonderci lasciandoci in bocca un sapore dolceamaro. E non sappiamo più se abbiamo letto un brillante divertissement para-gotico o un metafisico conte philosophique sulla tragicommedia dell’esistenza: entrambe le cose probabilmente.