Paul Schrader / Il cinema come arte della noia

Paul Schrader, Il trascendente nel cinema, tr. di Christian Raimo, Marietti Editore, pp. 313, euro 28,00 stampa

È un giovane entusiasta e “malato” di cinema – un’arte, come tutte le forme di intrattenimento, estremamente malvista nella rigida prospettiva calvinista della  famiglia di origine che si è appena lasciato alle spalle – il ventiquattrenne Paul Schrader che nel 1971, laureando alla UCLA (University of California, Los Angeles), pubblica una tesi su  Il trascendente nel cinema. Mentre collabora a riviste di cinema, due anni prima di firmare la prima sceneggiatura, una decina prima della regia di American Gigolò (1980), Mishima (1985), o, una vita più tardi, Il collezionista di carte (2021) – solo per citare alcuni dei suoi film più noti – il futuro sceneggiatore di Taxi Driver (1976) e Toro scatenato (1980) è interessato alle forme che considera più spirituali della rappresentazione cinematografica.  E, prima di chiunque altri, a tre maestri che hanno avuto un’influenza intellettuale diretta sulla sua maturazione giovanile: il francese Robert Bresson, il giapponese Yasujirō Ozu e il danese Carl Theodor Dreyer.

In una eco più o meno consapevole dell’educazione religiosa ricevuta, Schrader, “un prodotto  della chiesa cristiana riformata di Grand Rapids”, definiva mezzo secolo fa lo “stile trascendentale” come quella forma filmica che aspira a proiettarsi “al di là della normale esperienza sensoriale” o, detto in altre parole, a misurarsi con il Sacro. Alla ricerca di una “forma universale di rappresentazione”, che lo liberi dalle identità, che si tratti dei legami con la cultura di appartenenza o della personalità specifica che un artista di cinema esprime attraverso la scrittura e la regia, dichiara che: “lo stile trascendentale tende a massimizzare il mistero dell’esistenza”. Nel suo impeto giovanile, Schrader punta il dito sul naturalismo convenzionale, non solo di Hollywood, con il suo carico di psicologismo e di protagonismo attoriale, non meno che sulle tattiche dell’espressionismo intentate dalla generazione precedente (Dreyer compreso).

All’opposto, Bresson a Ovest e Ozu a Est, hanno sviluppato strategie ritualmente “inespressive”, volte a svuotare, con il flusso esuberante e imprevedibile della realtà, le convenzioni narrative e le costruzioni finzionali della narrazione cinematografica  – come la trama o la characterization – prosciugando  anche l’enfasi per processi tecnici stessi come il montaggio, la colonna sonora, ecc. Nella sua tesi Schrader – che nelle conclusioni allarga il suo orizzonte a figure multidisciplinari come Michael Snow e al cinema expanded di George Maciunas e Andy Warhol – individua anche le tecniche di questa “arte della noia”,  che l’avanguardia del tempo ha codificato, cifrando direzioni artistiche più o meno distinte. Tra queste la ripresa abnorme e meticolosa del quotidiano, per smantellare il fantoccio della realtà; la disparità che, come una crepa, si insinua tra il protagonista e il suo ambiente; infine la stasi che lasciando affiorare la sospirata attesa filmica dell’Altro, trascende questa disparità senza poi risolverla. La “noia” stessa è, tecnicamente, la chiave che il filmaker utilizza, per liberare la partecipazione dello spettatore (per fare un esempio di maniera:  insistendo un piano sequenza e aggirando  invece l’artificiosità e le convenzioni narrative del montaggio).

L’approccio “trascendentale”, che in altri contesti artistici si sarebbe forse definito “minimale”, in questi ultimi anni è stato spesso ribattezzato slow cinema, definizione a ombrello che, alla  larghissima, abbraccia il cinema di Theo Angelopoulos, Roberto Rossellini, o Chantal Akerman, non meno che di Aleksandr Sokurov o Abbas Kiarostami. Una definizione d’altro canto anche pigra perchè, come sottolinea Schrader nell’introduzione all’edizione del 2018, in tutti questi anni assieme alle mappe sono cambiati anche i territori del cinema e dai lunghissimi secondi che costellano i drammi familiari di Ozu si è arrivati alle 10 ore di Il cavallo di Torino (2011) di Bela Tarr.

Che cosa è cambiato? Secondo lo sceneggiatore della ex Nuova Hollywood, sono successe soprattutto due cose: Gilles Deleuze e Andrei Tarkovsky. Il filosofo francese, sulla scorta di Bergson, con il concetto di immagine tempo, ha fornito una base teorica al cinema che, a partire dal secondo dopoguerra, “plasma l’introspezione attraverso la durata”, e non attraverso una storia, come avviene invece nell’immagine movimento.  Dal canto suo, Tarkovsky afferma un nuovo paradigma estetico che dà forza all’immagine attraverso “il carattere del tempo che scorre dentro un’inquadratura”. Con Tarkovsky, d’altro canto, finisce anche virtualmente – salvo rare eccezioni – un tipo di cinema che, almeno fino agli anni ’70, ha visto convivere nelle sale i film di Bresson – o, se per quello, di Pasolini – accanto a Star Wars. Lo slow cinema è oggi per lo più una faccenda di festival e, secondo Schrader, a ripercorrerne la sua storia, ha assunto soprattutto tre direzioni artistiche, simboleggiate da altrettante figure allegoriche.

 La telecamera di sorveglianza.  Ovvero, il cinema erede del Neo Realismo teorizzato da André Bazin negli anni ’50, che da Rossellini e via Jean Marie Straub e certo documentario antropologico approda nel nuovo millennio ad esempio alla “trilogia della morte” di Gus Van Sant (Gerry, Elephant, Last Days, 2002-2007).

La galleria d’arte. In pratica, il cinema sperimentale, che da Walter Ruttmann, passando per i classici Oscar Fisherman e Norman McLaren, si arriva all’ultimo Godard ma secondo Schrader anche all’ultimo Terence Malick.

Il Mandala. Ovvero la meditazione. Dal pioniere Andy Warhol – i 10 minuti di Blow Job erano forse meno spirituali di altre durate? – a Kiarostami e al Kim Ki-Duk di Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera (2003) e a Twenty cigarettes (2011) di James Benning.

La mappatura di un fenomeno articolato e complesso che l’autore presenta nel libro anche graficamente attraverso un diagramma riassuntivo a tre dimensioni.  Una mappa che, ovviamente, non esaurisce né completa le emersioni, in continua metamorfosi, del territorio, e cioè del Trascendente, che come osserva Gabriele Pedullà nell’introduzione “è tra noi, partecipa delle nostre esistenze miserevoli, alla lettera prende corpo nelle sofferenze del mondo”.