Non è facile approcciare oggi Teneri carnivori, (1970) di Paul Shepard senza richiamare almeno per un attimo il suo contesto storico. Andando di sciabola si può dire che negli anni ’60, mentre un libro come Silent Spring di Rachel Carson scuoteva le coscienze di milioni di americani, plasmando nella cultura la prima generazione ambientalista, le scoperte scientifiche – con particolari riflessi nell’ambito della paleontologia, dell’antropologia e della biologia – portarono nuova luce sulla lunga infanzia dell’umanità spesso liquidata come “preistoria” dai manuali di storia. Questa generale riscoperta, perseguita attraverso diverse discipline, oltre a estendere la conoscenza e le dispute genealogiche sui primi ominidi scesi dalle piante, ha modificato per sempre la nostra visione stereotipata del Paleolitico, quell’alba dei sapiens, ancora prevalentemente cacciatori e raccoglitori, durata centinaia di migliaia di anni contro i circa diecimila di storia documentale del Neolitico.
Se Marshall Sahlins rivaluta “l’economia dell’età della pietra” come uno stile di vita in fondo rilassato e un’era non così sovrastata dall’incombenza della fame e del bisogno, il biologo Shepard si spinge molto oltre: la nascita degli insediamenti agricoli è all’origine del male che affligge la nostra civiltà e che attraverso la cultura dell’allevamento e poi dell’industria ha allontanato homo sapiens non solo dal suo baricentro ecologico e dai riti di passaggio che scandivano il suo posto nel mondo, ma dalla sua stessa storia evolutiva. Abbandonare il modello della caccia e dell’agricoltura di sussistenza, per Shepard, ha significato solo finire sul binario morto dell’Antropocene. L’ecologia deep di Teneri carnivori matura in questo clima culturale e politico, attorno a una riflessione ecologista radicale che, senza ancora neppure mettere in conto la questione climatica, osserva attonita il crollo della biodiversità, l’impoverimento del suolo e delle risorse a seguito della Rivoluzione Verde, la crescita dell’inquinamento e delle plastiche, la trappola demografica dello sviluppo e il ciclo fallimentare del green washing e della mitigazione tecnica.
In questo libro Shepard ripercorre per intero la parabola filogenetica e antropologica dei sapiens, in un album di famiglia che abbraccia lontani antenati e cugini estinti, dall’apparizione della vista binoculare tra le scimmie arboricole alle prime bande di ominidi a caccia ai grandi erbivori. Di questa base biologica per lo scienziato ecologista sono impastate anche le culture e neppure i suoi contemporanei possono prescindere dal loro codice “ancestrale” e dai moduli cognitivi selezionati in milioni di anni di evoluzione: sono infatti animali storici ma figli di quella storia profonda, più antica di quella correntemente accreditata dalle scienze umane, che Shepard ha testimoniato per tutta la vita. D’altro canto, lo studioso chiarisce che anche i cacciatori-raccoglitori, che il libro eleva a figure di una mitopoiesi “altra”, erano comunque umani tecnologici non meno dei loro pronipoti neolitici. Sprezzante verso il primitivismo ingenuo del suo tempo, radicale o di moda che fosse, sa bene di non poter invertire la freccia del tempo, tantomeno in un pianeta di otto miliardi di abitanti (tanti ne stima, correttamente, per il 2020, cioè ora), anche se la sua exit strategy suona oggi iconoclasta, distopica e implausibile.
Se Edward Wilson ha proposto provocatoriamente di riservare metà della superficie del pianeta alla wilderness, Sheppard, ancora una volta, va oltre, proponendo di riservare alla natura l’80% ma soprattutto di riconvertire la civiltà umana interamente in funzione di un drastico riequilibrio ecologico. La sua “modesta proposta” di società e di educazione post-neolitica al non-umano si richiama infatti a un’etica spartana e a una versione estrema del concetto deweyano di esperienza, con al centro la risignificazione e il rito della caccia. A questa si affiancano sofisticate tecnologie bioalimentari e ambientali, ma autorizzate al solo scopo di eradicare l’agricoltura e l’allevamento dalle nostre vite e di monitorare discretamente la natura.
Approcciare Teneri carnivori oggi, mentre la crisi climatica inizia a dispiegare la sua catastrofica sintomatologia in ogni angolo del pianeta, non è facile ma, per altri versi, è forse indispensabile e persino più raccomandabile di mezzo secolo fa. Come osserva Matteo Meschiari, curatore del volume: “È arduo pensare che la salvezza dall’estinzione debba passare di qua (..). Ma il lettore messo di fronte a questa ‘assurdità’ speculativa non dovrà lasciarsi ingannare. Dopo il sorrisino o la smorfia di indignazione sarà obbligato a rendersi conto di due cose: se il collasso può essere affrontato solo in chiave ecosistemica, allora la wilderness (selvatichezza, alterità, inalienabilità) dovrà avere una posizione centrale nel design tecno socio politico del pianeta; se un design di questo tipo, per quanto assurdo e impraticabile, è l’unica via di salvezza, allora il pianeta è già perso”.