Un libro di Piero Cipriano è sempre una lettura stimolante, provocatoria, per molti aspetti sovvertitrice delle rassicuranti certezze dietro alle quali barrichiamo le nostre paure. Per esempio il fatto che ci sia un ben delineato margine tra sanità e malattia mentale e che la psichiatria sia quella branca della medicina capace di stabilire i termini della divisione e di “curare” i malati o comunque in qualche modo di risolvere le crisi. Anche questo suo ultimo lavoro non smentisce il percorso tracciato dalle sue precedenti opere e, se possibile, ne radicalizza ulteriormente l’assunto. In realtà – argomenta Cipriano – lo psichiatra non cura – nel senso di guarisce – il disturbo psichico ma ne nasconde solo i sintomi, aggiusta, rattoppa, riadatta il sofferente a quella stessa realtà che ha provocato la sofferenza. In una società malata il disagio, il disadattamento, è un segno di sanità – il vero malato è chi si integra, chi collabora, chi non ha niente da ridire – lo psichiatra il cui mestiere è riportare alla norma, ristabilizzare gli scompensi – non terapia ma cosmesi – in realtà non è un medico, piuttosto un politico (ai tempi di Hitler c’era un termine preciso che indicava lo scopo che il partito doveva imporre alla nazione: Gleichschaltung, la “messa al passo”). Lo Stato, il capitale, non confida più nella rozza repressione poliziesca (intuizione profetica di Aldous Huxley rispetto a George Orwell: non 1984 – per ora – ma Brave New World) e reprime con più efficacia grazie alla scienza e alla tecnica: citando Ronald Laing, “se curi qualcuno significa che sei delegato dalla società a esercitare su un essere umano un potere persino più grande di quello che eserciti se lo punisci. Poiché ci sono limiti a ciò che si può fare a un carcerato in prigione, mentre non ci sono limiti al trattamento cui si può sottoporre un malato in ospedale”.
Dopo Laing, Franco Basaglia ovviamente, uno dei maestri ideali di Cipriano, una rivoluzione in parte riuscita, la legge 180 e la chiusura dei manicomi, ma una rivoluzione fallita, anche, perché il manicomio apparentemente distrutto si trasforma: non più mura e sbarre materiali ma molecole e diagnostica. Il manicomio ora è chimico: dopo la morte di Basaglia nel 1980, la restaurazione degli anni 80/90 parallela all’affermarsi del neoliberismo e del realismo capitalista che – e qui Cipriano cita Mark Fisher – ha esorcizzato “lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero”, distruggendo quanto prodotto dalla controcultura degli anni 60/70 compresa la “democratizzazione della neurologia” auspicata da Timothy Leary. Ora l’epoca squadernata dalla “Iron Lady” Margaret Thatcher, non a caso ex ricercatrice in chimica, biochimizza “la sofferenza psichica escludendo ogni possibile causa sociale o politica o economica” e apre il campo al mercato farmacologico delle “psicomafie multinazionali” come la Big Pharma e agli psichiatri dell’American Psychiatric Association, ligi alle sue direttive. Se non esiste la società ma solo l’individuo e i “cervelli rotti” vanno riparati, allora il binomio diagnosi-farmaco trionfa: per favorire un mercato iatrogeno si inventano patologie inesistenti come la depressione o il disturbo bipolare (in realtà stress, stanchezza, ansia da prestazione: un problema politico e non una malattia) ed esplode improvvisamente un’epidemia psichica, anzi una vera pandemia che dichiara, su sette miliardi di persone, quasi quattrocento milioni di depressi e sessanta milioni di bipolari (e “solo” venti milioni di schizofrenici), avviati alla farmacodipendenza da benzodiazepine e antidepressivi, senza risparmiare neanche i bambini che un nuovo Erode etichetta ADHD – soggetti a deficit dell’attenzione con iperattività: quasi quattro milioni di bambini americani vengono trattati con anfetamine per questo disturbo con la complicità dei loro insegnanti.
Perfino l’antitesi di quella dimensione chimica concentrazionaria, non più fatta di molecole che chiudono la mente ma che la aprono, quegli alcaloidi considerati droghe e per decenni repressi o marginalizzati, ora inizia a essere cooptata e addomesticata stravolgendone l’uso da anticapitalistico a pro-capitale. Per questo l’entusiasmo che Cipriano manifestava in alcuni dei suoi ultimi libri per il cosiddetto Rinascimento psichedelico, inteso come recupero della controcultura degli anni ’60/’70 in cui le molecole psichedeliche erano viste come il propulsore di una rivoluzione non solo individuale ma anche sociale e politica, sembra essersi ridimensionato. Il cosiddetto Microdosing di LSD, psilocibina, mescalina, ecc. diventa bieco strumento di potenziamento cognitivo e accrescimento neuronale per fighetti creativi miliardari, genietti della Silicon Valley, talenti (o presunti tali) in espansione, imprenditori sulla scia di Zuckerberg o Musk: le multinazionali chimiche rubano le medicine tradizionali dei nativi, le brevettano, le depotenziano, le impasticcano e le commercializzano (a caro prezzo) in farmacia (ci viene spontaneo pensare però che, ahimè, anche Albert Hoffman quando sintetizzò gli alcaloidi della Claviceps purpurea scoprendo l’LSD-25, stava lavorando per la Sandoz di Basilea, oggi Novartis International AG, una multinazionale…). Di nuovo il realismo capitalista disposto anche a decriminalizzare certe sostanze psicoattive purchè implementino la performatività e non la visione, sottraendole alla sfera sacrale, sciamanica, spirituale, l’unica che sia foriera di un reale cambiamento della persona, proprio come certe forme di yoga estirpate dal percorso interiore degli ashram vengono smerciate in palestra ridotte a pura ginnastica e fitness.
Il gregge non deve svegliarsi ma perpetuare il suo confortevole sonno. Le pecorelle smarrite vanno ricondotte all’ovile se ancora utili come forza lavoro e trattabili (nevrotici e depressi, curati magari con una terapia psichedelica attenuata, non visionaria, che restituisca loro una produttiva dis-felicità) o abbandonate al loro destino se inutili e intrattabili (schizofrenici, maniaci, deliranti, consegnati agli antipsicotici depot a vita). Un po’ come un tempo il proletario incurabile era confinato nella gabbia del manicomio mentre il borghese curabile – ovviamente abbastanza benestante da potersela permettere – poteva ricorrere alla cura psicanalitica o a qualche sua declinazione psicoterapica. Ben poco è cambiato in fondo se non la cognizione, fattasi forse più profonda, che “La trascendenza – ovvero trascendere il linguaggio, lo spazio, il tempo, l’ego, la meità – è la massima nemica del potere. Il potere, che si declina in Stato e capitale, teme più di tutto la trascendenza”.
Questo e molto altro ci racconta Cipriano inframmezzando riflessioni teoriche e filosofiche, esposizioni storiche e farmacologiche, con il racconto bruciante delle sue esperienze vissute in prima persona con pazienti e degenti dei vari Dipartimenti di salute mentale dove ha lavorato, dell’SPDC romano dove ha trascorso diciassette anni e del SerD dove attualmente si occupa di adolescenti con nuove dipendenze. C’è rabbia, scoramento ma anche molta speranza nelle sue parole: certo è duro, è faticoso procedere con coerenza nel nostro paese, con un governo come l’attuale certo ancora più duro. Cipriano dichiara che se non potrà lavorare con nuove terapie in Italia si trasferirà in Svizzera o Perù. Ci auguriamo vivamente che non debba farlo, sarebbe una grave perdita per noi tutti che condividiamo le sue idee e un sollievo invece per i molti che ostacolano ogni nuova prospettiva di cambiamento: se esiste ancora qualche speranza, flebile forse ma viva e vera, questa risiede anche in medici, pensatori e uomini come lui.