Pietro Roberto Goisis / La stanza dell’umano

Pietro Roberto Goisis, Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti, Enrico Damiani Editore, pp. 368, euro 20,00 stampa, euro 9,99 epub

L’autore racconta aneddoti, descrive situazioni, analizza accadimenti, sviscerandone i contenuti più profondi, intimi e simbolici. Percorre e ripercorre, insieme al lettore, un lungo percorso che lo ha visto prima figlio e poi padre, studente, tirocinante e terapeuta, medico e paziente egli stesso. Racconta molto di sé, del percorso professionale ma anche della vita privata. Come se il libro, in realtà, avesse o dovesse avere, per lui, un effetto “terapeutico”, catartico.

Tutto sembra avere origine dal luogo in cui si svolgono i colloqui clinici tra lo psicoanalista e il paziente: la stanza. Per Goisis, se non ci fosse non esisterebbe alcun terapeuta e nessun paziente. Al punto che egli ritiene possa essere addirittura magica, “che riesca a tirare fuori il meglio di me, qualcosa che neppure so di possedere, che altrove non saprei trovare, che mi sorprende”. La stanza è il luogo fisico e simbolico dove le persone diventano pazienti e chi le ascolta diventa il loro psicoanalista, il medico che deve ascoltare e guarire le fragilità, le paure, i traumi, le incertezze e le insicurezze. E deve farlo secondo una metodologia che, fino a pochi anni fa, era molto rigida, con severe regole di condotta dentro il luogo la terapia, e fuori da essa, dove andava mantenuto il massimo riserbo. Sono stati gli insegnamenti di Tommaso Senise a far maturare la consapevolezza in Goisis che “nella terapia si può fare tutto, purché si sappia perché lo si fa”. La stanza è pet friendly: gli animali rappresentano anche aspetti interni delle persone che li portano. Risultano quindi funzionali alla terapia.

È alquanto singolare che nelle scienze che si occupano del comportamento umano si abbia la tendenza a isolare l’individuo considerandolo separatamente dalle variabili esterne. Cosa che non accade, per esempio, in etologia, dove lo studio delle relazioni tra animale e ambiente vengono da tempo prese in esame come fattori determinanti. Negli studi sul comportamento patologico, le conseguenze di questo atteggiamento portano a occuparsi principalmente della mente umana come se fosse un’entità indipendente. E, nella psicoanalisi, questa entità indipendente viene indagata all’interno della stanza, che diviene la bolla dentro la quale si sviluppa per intero la terapia.

Goisis ha mostrato sempre molta cura e attenzione nel comporre l’universo-stanza dentro cui accoglie i suoi pazienti. Considerando la presenza, in un angolo, di una pianta verde il suo legame con la natura dentro la stanza. Sono stati gli insegnamenti di Nina Coltart a far volgere lo sguardo dei terapisti oltre il perimetro delle mura, allungandolo fino alla natura. Lei sosteneva, infatti, che ogni terapeuta dovrebbe possedere e coltivare un giardino. Il lavoro svolto dentro la stanza può essere pensato come il lavoro della capacità di amare, volto a far sentire il paziente importante, compreso e accolto. Un amore che è trascendentale, l’unico contenitore affidabile entro cui potremmo sentire odio, rabbia, disprezzo per periodi di tempo variabili.

Grande cura bisogna riporre in ogni dettaglio, poiché i dettagli sono il modo di accogliere il paziente ed è proprio dal setting che inizia la cura stessa. Dalla stanza. All’interno della quale il tempo acquista una dimensione nuova, propria. “A volte sembra rallentare o dilatarsi come se assecondasse silenziosamente lo stato d’animo dei miei pazienti, il fluire ora torrenziale ora reticente delle loro parole. È una sensazione piacevole, anche se a volte gestire lo scorrere dei minuti, riportarli all’ordine e chiudere una seduta non è semplice. Del resto, il mio compito è anche questo: tenere la rotta, guidare il flusso dei pensieri, dosare le paure, tenendo però la mano leggera”.

Il concetto di tempo è strettamente connesso con la psicoanalisi. Il rapporto tra uomo e tempo è sempre stato difficile e problematico. Sul fronte della clinica, l’analista che segue il metodo indicato da Wilfred R. Bion “senza desiderio e senza memoria” configura il setting come un’isola del tempo. Ma anche il soggetto, all’inizio del trattamento, dovrà rinunciare al controllo del tempo, sia del passato che del futuro. Si può considerare il tempo come una tela su cui ricamiamo le nostre esperienze di vita. Una tela che ci avvolge e ci copre, ma che a volte ci soffoca anche. Goisis si dichiara controllore del tempo della seduta di psicoanalisi, ma egli in realtà è anche il decisore del tempo verso cui la terapia tende e tenderà. Fino a non molto tempo fa, lo sguardo del terapeuta era diretto sostanzialmente verso il passato, come causa e antecedente del presente. Di recente, invece, lo sguardo del paziente e dell’analista è rivolto al futuro e le aspettative sono viste come un fattore significativo rispetto a ciò che sta accadendo. Non è l’après-coup o il Nachträglichkeit ciò che improvvisamente conferisce un nuovo significato al passato rendendolo traumatico, ma è quello che non è ancora accaduto, ma è desiderato o temuto, a determinare in parte ciò che sperimentiamo nell’oggi. Il passato, il presente, il futuro, le aspettative, le emozioni, le paure, le fobie, i traumi, le speranze: chi si affida al lavoro di uno psicoanalista mette tutto questo e anche oltre sul tavolo, ma, spesso, a farlo è anche lo stesso medico: “Lo psicoanalista non è un muro, non è neppure un orecchio neutro. È una persona che vive di incontri, che deve curare altre persone, ma anche curare se stesso”.

La regola tradizionale richiede al terapeuta neutralità, astinenza e anonimato. Ma il fenomeno dell’autorivelazione (self-disclosure), ovvero uno svelamento cosciente e voluto, da parte dell’analista, di qualche aspetto di sé al paziente, è entrato sempre più a far parte del linguaggio psicoanalitico. Lo schieramento di studiosi favorevoli o contrari alla self-disclosure è nettamente contrapposto. I primi ne vedono le potenzialità proprio nell’abbandono di un eccesso di neutralità che può addirittura inibire il processo terapeutico e bloccare le libere associazioni del paziente. Per i secondi, invece, l’autorivelazione potrebbe rappresentare una difficoltà controtransferale dell’analista arrivando addirittura, in casi estremi, ad essere espressione di una sua necessità narcisistica di rivelarsi. È per certo auspicabile che l’autorivelazione dell’analista sia, in ogni caso, sempre funzionale al paziente e alla terapia. In base anche al principio di Senise, ripreso dallo stesso Goisis, secondo cui l’analista deve ritenersi libero di agire purché sappia sempre ciò che sta facendo. Ciò che non andrebbe mai dimenticato è che, alla fin fine, gli psicoanalisti non sono altro che esseri umani, semplicemente. Non custodiscono verità assolute e combattono loro stessi, quotidianamente, con una moltitudine di emozioni al pari dei loro pazienti. Può essere necessario, anche per imparare a essere dei bravi analisti, sottoporsi in prima persona a un percorso di terapia. Ed è qui che entra in gioco un altro aspetto fondamentale: qual è lo scopo ultimo di una terapia psicoanalitica?

Per Goisis il mero ascolto non può essere indicato come scopo ultimo di una terapia. I pazienti, dal canto loro, si aspettano una soluzione tangibile e concreta ai loro problemi. Lo scopo ultimo di una psicoterapia sembra essere il cambiamento che porta, per il paziente, una maggiore consapevolezza di sé, del proprio essere e dei propri bisogni, nonché del modo di guardare gli altri e il mondo. Lo si potrebbe anche interpretare come una sorta di liberazione da un’oppressione latente o evidente. Un’angoscia che limita e devia il comportamento ordinario e quotidiano.

Il finale del libro spiazza un po’ il lettore. Per la fermezza e l’espressività anche troppo colorita. Discordante per certo dallo stile utilizzato fino a quel punto dall’autore. È un finale anomalo, inaspettato, ma certo non privo di significati e significanti. Rappresenta, in un certo qual modo, la conferma della funzione catartica assunta dalla scrittura, dal libro stesso, per Goisis. Quasi una sorta di psicoterapia della narrazione. Di cui il finale ne rappresenta e al contempo ne descrive e racchiude lo scopo. Il cambiamento, la liberazione dello stesso autore, per tramite della sua esternazione, dalla sofferenza e dal dolore causati dalla perdita e dalla mancanza di un affetto cui non era pronto a rinunciare. Ecco quindi perché il libro appare, a tutti gli effetti, un percorso di terapia. Un cambiamento. Una catarsi.