Robert Perišić / Il senso di Kalia per la vita

Robert Perišić, La gatta alla fine del mondo, tr. di Elvira Mujčić, Bottega Errante Edizioni, pp. 336, euro 20,00 stampa, euro 11,99 epub

“Stranieri degli stranieri in terra straniera”, così Arion definisce la sua condizione nell’ultimo romanzo di Robert Perišić, un capitolo del tutto peculiare nel suo percorso narrativo, una sorta di fiaba intessuta di leggenda ambientata nella Grecia del IV secolo dal titolo La gatta alla fine del mondo. Nella colonia di Taranto i figli che le spartane concepiscono con gli stranieri non hanno diritto di cittadinanza. “Non eravamo coloro che avremmo dovuto essere” dice Arion, il quale è alla costante e vana ricerca di una dimora che gli appartenga. In quest’ambito tutto appare ammantato da un velo di incertezza. Non sappiamo chi siano gli altri, ma anche riguardo noi stessi non abbiamo sicurezze. Menzogna e verità si danno battaglia.

La narrazione, con ammirevole leggerezza, indaga i mali della nostra contemporaneità in maniera profonda. Il libro è animato da un particolare senso dell’umorismo, come quando si giustifica la scelta dei politici fra coloro che mentono, perché chi cerca la verità rischia di impazzire e quindi non potrebbe garantire la governabilità della polis. Siamo di fronte a un’avventura alla ricerca della libertà. Lo schiavo Kalia parte da Siracusa, insieme alla gatta Miu e all’asino Mikro, per fondare una nuova città su un’isola, sorta di microcosmo di shakespeariana pregnanza. Il pensiero corre subito alla Tempesta, tanto più che il misterioso Tiravento appare come una sorta di Ariel, spirito dell’aria sceso sulla terraferma per motivi arcani. Lo spirito narra, ben sapendo che il linguaggio degli umani non gli si addice. I ricordi evaporano, svaniscono nel vento. Per questo estrarre la verità risulta estremamente difficile.

L’atto del narrare origina dalla paura di sparire senza lasciare traccia. La lingua è una sorta di macchina del tempo che permette di abbracciare l’infinito. Perišić ci mostra i primi vagiti del linguaggio; così Kalia apprende le lettere, emancipandosi dalla schiavitù, mentre Tiravento si avvicina a poco a poco agli uomini, alla loro capacità di nominare ogni cosa dell’universo, rendendola tangibile.  Nella inesausta bellicosità dell’uomo, la lingua combatte le sue guerre. Conflitti esplodono, mentre i confini si spostano di continuo. Nelle pieghe della fiaba appaiono le tare della nostra epoca, la iattura del turismo selvaggio, i mutamenti climatici, le enormi masse di memoria custodite in server inaccessibili, inutili per l’uomo, il divario incolmabile fra i ricchi e i diseredati, le lotte infinite per la supremazia fra i popoli.

La narrazione alterna la storia vera e propria alle elucubrazioni di Tiravento, alle sue riflessioni sulla natura umana. Finché i nomadi si muovevano da un posto all’altro erano immuni dalla tara del possesso. Quando divennero stanziali iniziarono ad inquinare il mondo con le loro brame dominatrici. Gli animali, nella loro innocenza, svelano i meccanismi insani della società umana. La gatta rifiuta di riconoscere in Pigras il proprio padrone, perché semplicemente non comprende le gerarchie umane, perché rifugge la sua volontà di dominarla. Kalia prende coscienza a poco a poco della propria condizione di schiavo. Il luccichio del mare genera un desiderio di libertà che lo invita al viaggio. La fuga di Kalia origina da un atto di ribellione contro il suo padrone. Viene in mente un libro recente di Bianca Bellová intitolato L’isola, nel quale la scrittrice ceca si confronta con una trama avventurosa intessuta di scoperte e animata da un profondo senso per il meraviglioso. Forse oggi alcuni scrittori trovano nel tessuto fiabesco una maniera per parlare del presente, creando narrazioni apparentemente distanti nel tempo e nello spazio. “Una volta fatta riemergere, la storia è come la carcassa di una nave affondata”, immersa nel silenzio di un fondale misterioso. Un libro particolare, una fiaba animalista ed ecologista dall’impegno etico che invita a guardare il mondo con gli occhi vergini e innocenti della fanciullezza.