Sadagari / Sporcarsi le mani con il mondo

Sadagari, Diritto al malessere, ADD Editore, pp. 144, 17x24 cm, euro 20,00 stampa

Diritto al malessere è l’opera d’esordio di Sasha De Maria, in arte Sadagari, grafico, illustratore e attivista. Si tratta di un lavoro molto denso, a metà strada tra la graphic novel e il saggio autobiografico, contraddistinto da un uso ossessivo, quasi barocco, dell’estetica ASCII e 8 bit. Le ampie tavole che danno forma al libro, spesso riempite all’inverosimile, si susseguono tra loro in una sorta di clonazione soft dell’estetica noise, accompagnate da slogan, ricordi personali e riflessioni critiche. Ne risulta un testo in bianco e nero piuttosto voluminoso, dai toni tanto cupi quanto disperati, che rompe con la tradizione del testo illustrato per seguire un’originale ibridazione tra grafica e quella che è stata denominata “theory” (una versione minoritaria e ribelle della teoria critica accademica, sviluppatasi sulle riviste, prima cartacee poi online, tra la fine degli anni Novanta e i primi vent’anni del Duemila).  

Come si può evincere dal titolo, il filo conduttore del libro è il diritto a esperire fino in fondo il proprio malessere psicofisico, a divenirne autocoscienti e a manifestarlo apertamente. Diritto negato dal sistema capitalista poiché non compatibile con l’attuale paradigma produttivo, fondato sulla competizione e sul miglioramento di sé.
Questo il tema portante dell’opera, che prende le mosse dalla neurodivergenza per approdare alla sofferenza psichica in generale, in quanto prodotto dello sfruttamento sistemico. In breve, si tratta di una sorta di ricontestualizzazione delle considerazioni intimiste e delle bordate teoriche canonizzate da Mark Fisher – non a caso padre putativo della theory.

Fin qui, Diritto al malessere rappresenta indubbiamente una novità dal punto di vista formale: una modalità espressiva che, per l’appunto, pesca a piene mani dall’attività di grafico del suo autore – anziché dal fumetto classico o dai libri illustrati; ma anche un dispositivo narratologico che prende spunto dal web. Si potrebbe dire che l’idea stessa di concepire il medium-libro alla stregua di una riproduzione tattile di un sito, incarni i limiti una generazione che non conosce altro che internet, che non abita altro che il nomadismo digitale e l’impermanenza, ma che desidera anche fissare in qualche modo questa stessa esistenza rizomatica ed effimera. Serve tempo per consumare e metabolizzare l’opera di Sadagari – e non poco. Questo tipo di testo, ancor più del romanzo o del saggio classici, sembra richiedere una particolare dose di attenzione, non essendo fondato su un solo meccanismo ma su una sovrapposizione di strategie narrative, toni e registri anche molto diversi tra loro.

Dal punto di vista contenutistico, per quanto appassionata e radicale, l’opera dà mostra di tutti i limiti che (in modo piuttosto stereotipato) si possono attribuire alla giovane età dell’autore. Mi riservo questa considerazione dal retrogusto ageista in virtù del tempo trascorso assieme al mio, di malessere. La radicalità del testo, infatti, non ha mancato di riportarmi alla mente il mio stesso desiderio di “universalizzazione” (nel mio caso si è trattato addirittura di una “assolutizzazione”) della sofferenza. Negare ogni possibilità di sintesi dialettica tra sé stessi e il mondo è una strategia fallimentare nel momento stesso in cui rifiuta di confrontarsi non solo con il reale ma con quella stessa istanza che, all’altro capo della barricata, non manca mai di riconoscere il proprio autoproclamato nemico. Se, da un lato, infatti, non vi è istante in cui non siamo consapevoli di essere malati, dall’altro, siamo anche profondamente ripugnati dal dover trafficare con ciò che ci circonda. Un’etica e, forse, un’estetica della purezza che offre più problemi che soluzioni. Lo stesso autore, d’altro canto, attraverso la sua professione e la sua produzione artistica, è testimone della possibilità di una sintesi concreta tra autenticità, lotta e sofferenza.

Non intendo scendere troppo nei particolari, ma mi pare che il libro – come molti altri testi recenti – vada incontro a una banalizzazione e, peggio ancora, a una riduzione a slogan dei temi trattati. La costruzione di un codice che non è più a misura di individuo ma che, al contrario, assoggetta gli individui a concetti e parole d’ordine. L’effetto è che molte delle idee espresse nel libro appaiono confuse e, a volte, contraddittorie, là dove la lucidità di visione è l’elemento più rilevante anche all’interno di una filosofia o critica del malessere. 

Un esempio pratico. Ciò è particolarmente vero nel caso dei disturbi psichiatrici che confinano con la sfera antisociale e che, negli ultimi anni, sono divenuti oggetto di una vera e propria persecuzione da parte delle attiviste e degli attivisti digitali. Sto parlando, ovviamente, del disturbo borderline, del disturbo antisociale e del disturbo narcisistico. Come si configura questo asse “perverso” del malessere, rispetto alla proposta di Sadagari? Il diritto al malessere consentirebbe di rimuovere lo stigma sui disturbi del gruppo B, promuovendone l’espressione e la presa in carico collettiva. D’altra parte, tuttavia, senza un adeguato processo terapeutico (D.B.T. e Schema Therapy) non è neppure remotamente possibile approdare a un superamento del conflitto autodistruttivo al quale tali disturbi danno luogo. 

Detto questo, trovo perfettamente comprensibile che le nuove generazioni siano in cerca di una via di fuga – tanto concreta quanto immaginaria – o di forme di vita sottrattive (come nel caso degli hikikomori), anziché di nuove strategie di conflitto. Si tratta, in fondo, di un lascito inscritto nel fallimento dell’attivismo stesso dinanzi ai nuovi media digitali, nonché all’egemonia del mediattivismo promosso da agenti economici quali case editrici e influencer. Da questo punto di vista, Diritto al malessere incarna, forse, il primo vagito di un nuovo modo di pensare e rappresentare il pensiero su carta, nonché il primo passo verso un percorso artistico e personale che ci si augura possa guadagnare in organicità e affilatezza senza perdere in radicalità.