Sebastián Ávila / Ovunque guerra

Sebastián Ávila, Ovejas, tr di Mariuccia Cadenaso e Raffaella Odicino, Magdalena Edizioni, pp. 152, euro 18,00 stampa

Ovejas è un romanzo dello scrittore argentino Sebastián Ávila, edito in patria nel 2021. Viene pubblicato dalla giovane casa editrice nata nel quartiere genovese della Maddalena, luogo di forti contrasti e di incontri e scontri. In questo libro c’è davvero qualcosa che non vorremmo vedere, gli orrori della guerra e i giochi di potere. La storia ruota attorno al piccolo gruppo di soldati destinati a presidiare un faro considerato strategico da un punto di vista militare e quindi da difendere a ogni costo, respingendo ogni eventuale attacco e continuando a pattugliare la zona – anche se, nei fatti, è praticamente ignorato dalle ostilità.

Siamo in un lembo sperduto delle isole Malvinas, Falkland Islands per gli inglesi che le amministrano, teatro di una guerra brevissima e catastrofica, scatenata da una dittatura, quella argentina, che voleva recuperare consenso e che, invece, si ritrovò a fare i conti con quasi settecento vittime, un centinaio di suicidi e perdite economiche considerevoli. Con la sua struttura a episodi brevi, spesso non collegati tra loro, il romanzo si snoda descrivendo le poche attività quotidiane del manipolo di soldati che è più occupato a combattere fame e freddo che non nemici in carne e ossa, raccontando soprattutto la battaglia per la sopravvivenza condotta da uomini sprovvisti di tutto in un’isola ai confini del mondo e la quotidiana lotta con loro stessi e la solitudine che devono affrontare, costretti a una permanenza lontano da casa, che diventa sempre più assurda col trascorrere dei giorni.

Il realismo di certe descrizioni si mescola e si confonde con il delirio dei soldati e con i loro sogni che, per ammazzare il tempo, si ritrovano a raccontarsi, ma la condivisione riguarda solo quelli ritenuti poco interessanti perché gli altri, quelli più profondi, che parlano del gruppo, delle tensioni interne, dei dubbi che li tormentano, decidono di tenerli per sé; questa dimensione onirica ci immerge nell’incertezza con cui i soldati affrontano le loro giornate di missione e ben rappresenta la sospensione del raziocinio in cui si piomba quando il tuo compito è quello di uccidere un tuo simile solo perché indossa “una divisa di un altro colore”.

La prosa asciutta e senza orpelli è molto efficace nelle descrizioni dei cadaveri mutilati, delle relazioni sospettose tra gli uomini, dei sentieri che sembrano rivestiti di pietre ma sono di ossa umane, della paura con cui convive la piccola pattuglia persa e dimenticata, dell’incessante soffiare del vento gelido che costringe gli uomini a chiudersi nel faro senza neanche poter uscire per i più elementari bisogni corporali, ridotti ormai a un’attesa infinita senza neanche sapere cosa precisamente aspettare.

La scrittura così essenziale di Ávila ben si sposa anche con l’ironia delle descrizioni della mascotte dei soldati, battezzata Valdano: un pinguino così chiamato per l’abilità con cui riesce a schivare le mine posizionate sulla spiaggia grazie a movimenti che ricordano i dribbling del calciatore argentino Jorge Valdano, riportandomi alla mente un altro giocatore argentino decisamente più famoso, Diego Armando Maradona, e il suo famosissimo goal di mano realizzato contro l’Inghilterra (imperialista), ribattezzato “la mano de Dios”, durante i quarti di finale del Mondiale di calcio giocato in Messico nel 1986, quando ancora non era scomparsa la tensione della guerra delle Falkland terminata quattro anni prima.

Ovejas – pecora in spagnolo, la cui carne è ormai l’alimentazione primaria dei soldati ridotti a un gregge spaurito e demotivato –, parlandoci di una guerra ormai quasi dimenticata, porta a riflettere sull’ubiquità, l’assurdità e l’inutilità della guerra dei nostri giorni, sulla nostra impotenza di fronte al continuo dilagare e perdurare dei conflitti e sul fatto che speranza e pace rischiano di diventare parole che descrivono qualcosa che si teme aver perso per sempre. «Mi stanno caricando su una barella. Ho la bocca intorpidita, come se mi avessero cotto le labbra. Il corpo di Basualdo non è più dov’era. Per lui non c’è neanche la barella. Sto piangendo».