Serge Latouche / L’arte perduta di vedere la bellezza, l’arte di vivere

Serge Latouche, Il disastro urbano e la crisi dell’arte contemporanea, tr. di Cristina Cecchi, Elèuthera, euro 14,00 stampa, euro 6,99 epub

Serge Latouche, filosofo, economista e obiettore di decrescita, condensa in un centinaio di pagine una riflessione sul fallimento dell’urbanistica e sull’insignificanza dell’arte nel mondo contemporaneo. Il paradigma di uno sviluppo continuo e inarrestabile divora ogni cosa, anche l’idea del bello. La società mercificata produce continuamente consumo, immondizia e bisogni. Non mancano architetti e urbanisti di valore che progettano singoli edifici ecologici e perfettamente vivibili, ma sul piano globale l’architettura non ha arginato la cementificazione, la devastazione del territorio, e soprattutto non ha plasmato degli spazi di condivisione per la collettività e una nuova estetica condivisa.

Alla base di questo pensiero c’è l’idea sottintesa che l’architettura sia la disciplina che forma la società e nello stesso tempo ne è il riflesso, e che l’estetica dell’architettura sia in qualche modo conforme all’educazione delle persone e alla loro moralità. Il pensiero che l’architettura sia sopra e dentro tutto; la sua valutazione critica – con un po’ di esercizio – alla portata di ciascuno; e che da essa si possa desumere lo spirito di una civiltà, molto di più che dall’arte, perché dalle opere d’arte presumiamo di desumere lo spirito di un determinato artista piuttosto che quello della collettività di appartenenza.

Non stonerebbe, tra le pagine di Latouche, il pensiero del viaggiatore e critico d’architettura Robert Byron, che nei primi anni Trenta del XX secolo scriveva: «L’architettura è la più universale delle arti. […] I dipinti si trovano nelle gallerie, la letteratura nei libri. Le gallerie devono essere visitate, i libri devono essere aperti. Gli edifici invece sono sempre con noi. La democrazia è un fatto urbano, l’architettura è la sua arte» (R. Byron, Il giudizio sull’architettura, Umberto Allemandi & C., Torino 2006). Parole che riecheggiano Cornelius Castoriadis, più volte richiamato da Latouche: «Si può affermare, senza rischio di essere contraddetti, che gli individui sono soggetti a una paideia diversa per effetto del solo contesto urbano, se per esempio vivono a Siena o a La Courneuve». Così per Latouche la crisi dell’abitare, nelle nostre città senza mura cinte da periferie rivestite di manifesti pubblicitari, è una crisi politica e sociale.

Il progetto della decrescita, che è funzionale alla costruzione di una società (e quindi di una architettura) diversa, porta con sé valori etici ed estetici e la speranza di re-incantare il mondo, riplasmando un’idea del sacro legata ai luoghi. Ma per restituire senso e pienezza alla bellezza – e al sostantivo tanto abusato – l’arte deve recuperare un significato attivo. Il concetto di arte priva di funzione, distaccata dall’artigianato, è nato nella modernità, con l’ascesa della borghesia, insieme all’immagine dell’artista come figura geniale che segue la propria fiamma interiore (ed è quindi legittimato a disinteressarsi, se lo desidera, della collettività di cui è parte). L’arte è oggi, nella visione di Latouche come in quella di Jean Baudrillard negli anni Settanta del XX secolo, un universo autoportate dominato dall’economia. I nuovi artisti sono inventati dal giornalismo e dalla critica, con l’obiettivo di far funzionare il mercato. Essi, come scrive Castoriadis, creano, più che opere, prodotti “che condividono con tutti gli altri prodotti della loro epoca il medesimo cambiamento nella determinazione della propria temporalità: studiati non per durare, ma per non durare”.

L’arte è esibizionista, fine a sé stessa, ed è arte perché dichiarata tale (ben oltre i ready-made di Duchamp) anche perché – se non venisse dichiarata – nessuno la riconoscerebbe. Finché persiste questa impasse, la bellezza non è alla portata di tutti e l’arte non può essere uno strumento di cambiamento del mondo. Nella critica alla società dei consumi di Latouche alcuni punti soprattutto meritano ulteriori riflessioni che – mi rendo conto – tracimano da una semplice recensione. Il disinteresse, tutto e solo moderno, per la durata delle architetture e dei manufatti distingue profondamente il paesaggio antico e premoderno da quello contemporaneo. La nostra società e l’architettura sono caratterizzate, inoltre, dall’assenza di reimpiego, nei materiali, nelle forme architettoniche, molto spesso anche negli spazi. Le necessità di tutela impongono ristrutturazioni filologiche degli edifici storici che, se da un lato sono comprensibili ed evitano le devastazioni dei decenni passati, dall’altro tolgono una possibilità di rinascita agli edifici antichi. La funzione abitativa di molti centri storici si va perdendo, non soltanto in aree urbane ma in tantissimi piccoli paesi delle campagne italiane. Si costruiscono villette ai margini del paese invece che ristrutturare le case nel centro, dotate di stanze piccole e condizioni di luce e di visibilità dell’esterno che non riteniamo più adatte all’abitare a cui aspiriamo. Si torna a vivere nei piccoli centri per sfuggire al caldo, all’inquinamento, al traffico e ai costi delle grandi città, ma questo non comporta la ricostruzione di un tessuto di collettività condivisa. La casa è più spesso nuova e libera sui quattro lati. I vecchi spazi di condivisione persistono formalmente, con poche sacche di resilienza.

L’assenza di una nuova estetica rimarcata dal filosofo francese è evidente anche nel fatto che, nonostante quanto detto poc’anzi, continuiamo a considerare belli i centri storici antichi, eredi di culture differenti da quella attuale. Jeff Bezos sceglie di sposarsi a Venezia, non alla periferia di Mestre. Quella stessa Venezia che Marinetti nel Manifesto del Futurismo del 1909 avrebbe voluto distruggere; un’ipotesi che ci inorridisce ma che non ci impedisce di fare di quel centro storico un oggetto di mercificazione colonizzato dall’economia.

In questa fase di museificazione e gentrificazione dei nuclei storici, che va di pari passo con la costruzione di una bellezza statica e innocua, il dilemma e l’ambiguità della conservazione si pongono più che in altri periodi storici. Dovremmo domandarci come mai l’eredità materiale del passato sembri portare da sola il peso della bellezza. Perché continuiamo a trovare belli i centri storici delle città europee, palinsesti medievali e post medievali? Siamo davvero noi i produttori di questa estetica, noi ad aver deciso che quelle forme sono di nostro gusto, nello stesso tempo condannandole, di fatto, a non servire più a niente se non a colmare le memorie delle nostre fotocamere durante le vacanze? Non sembriamo del tutto consapevoli del paradosso che in molti contesti la conservazione e la tutela sono le uniche forme di reimpiego delle architetture antiche che mettiamo in atto, un sistema di protezione da parte di uno sviluppo che si dice sostenibile (Latouche in una vecchia intervista aveva definito lo sviluppo sostenibile una invenzione linguistica, un “ossimoro grazioso”: S. Latouche, Decrescita o barbarie, Castelvecchi, 2018).

Scrive il filosofo nell’introduzione che decrescita significa «arte di vivere bene, in sintonia con il mondo», e «abbandonare il culto insensato dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita». Non è un programma ma un orizzonte di senso, che si nutre di altri pensieri destinati al ri-abitare e alla ri-sacralizzazione degli spazi esistenti per interrompere la produzione continua di nuovi luoghi. Tra le otto R indicate già altrove dal filosofo per re-incantare il mondo (“rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare”) devono trovare spazio anche una riabilitazione del gusto; la riscrittura dell’arte come componente fondamentale dell’esistere, sulla scia di Castoriadis, per il quale le grandi opere d’arte erano finestre sul caos che svelavano e inventavano un cosmo; la ridefinizione dello spazio urbano con edifici di altezza media (non grattacieli né villette) autoefficienti da un punto di vista energetico e tra i quali sia possibile passeggiare. Ma si tratterebbe soprattutto di prendere atto dell’esistenza delle numerose persone che aspirano all’arte o ne sentono il bisogno. Tra i resilienti Latouche iscrive i writers che «si ribellano contro la pubblicità, quindi contro l’estetica della società di mercato e contro il monopolio pubblicitario della bellezza» (e infatti la tendenza è quella di trasformare la loro arte in valore estetico, v. Banksy).

Il compito è molto arduo, anche solo limitandosi all’arte. Come riconoscere le finestre sul caos, distinguendo la grande opera da quella dozzinale? I produttori di gusto e di estetica sono esistiti anche nell’era pre-globalizzazione e la tendenza è sempre stata, anche sul piano dell’architettura, di utilizzare le resistenze (anche un centro storico lo è, se inteso come luogo con una anima) per mantenere il mito dell’arte e della cultura, distruggendolo poi nel reale. Uno degli obiettivi principali potrebbe allora consistere – è la mia personale forma di comprensione di quell’orizzonte di senso, per nulla immediato, che si chiama decrescita – proprio nel togliere l’arte, e la materialità passata che interseca i nostri spazi dell’abitare, dalla sfera del futile, del diletto e del bello. Una strada difficile, non ortodossa e non tracciata.