Surfisti cinesi?

Francesco De Luca, Karma Hostel, Ass. Culturale Il Foglio, pp. 340, euro 15,00 stampa

Italiani, popolo di emigranti. Così un tempo, così oggi. A questa categoria, che pare destinata a perdurare nel tempo nonostante i momenti di megalomania che ogni tanto prendono i nostri governanti e la stampa del Bel Paese (dall’Impero al Boom alla Milano da Bere ai Capitani Coraggiosi…), appartengono molti nostri connazionali che continuano a cercare fortuna altrove. Spesso neanche fortuna, ma abbastanza da tirare a campare. Andate a Londra, e ve ne renderete facilmente conto.

Qualcuno però se ne va da quella Roma, come diceva Remo Remotti, ed emigra in Cina; e non per aprire la fabbrichetta con manodopera a costo quasi-zero. No, ci va, come ha fatto l’autore di questo memoriale, a imparare il cinese, a sposarsi con una donna di quelle parti (ma del matrimonio – non molto riuscito – ci dice poco), e poi, stanco della Pechino e del nord dove si pensa solo ai soldi, molla tutto e scende al sud, perché pure la Cina ha i suoi meridionali – molto meridionali, tropicali! E in un paesetto di pescatori, Houhai, sull’isola (ovviamente tropicale) di Hainan, apre assieme a un socio e amico cinese un ostello per surfisti.

Surfisti cinesi? Può sembrare strano, magari voi pensate ai soliti ragazzoni californiani biondi e abbronzati, ai Beach Boys, e vi vengono in mente i cori della loro canzone “Good Vibrations”. Be’, del surf so poco, ma una cosa mi è chiara: è una massoneria internazionale. Surfisti ce ne sono dappertutto, e dovunque ci siano belle onde, al caldo e al freddo, alle Hawaii oppure sulle rive dell’Irlanda, sono sempre pronti a montare sulla tavola e a misurarsi con la forza straripante del mare. A Houhai ci sono belle onde, bellissime, e l’acqua è calda, per cui vai col surf! E De Luca (per i cinesi “DeLuFa”) ci racconta come nacque il locale ostello per i cavalieri dei cavalloni, e come attirò frotte di fedeli della tavola (non quella coi piatti sopra).

Ma da bravo surfista De Luca è anche un po’ un mistico, un po’ un visionario, e anche, se vogliamo, un po’ sballato, ma nel senso più buono del termine. E sballata è la sua prosa, altalenante come le onde, torrenziale come le piogge tropicali, sballottante come il mare squassato da un tifone (arriva anche quello). De Luca afferra le parole e te le tira addosso. I risultati qualche volta sono strampalati, ma spesso provvisti di una loro poesia tra l’estatico e lo sconvolto (anche a causa del consumo di determinate sostanze, ma questo rientra ovviamente nell’etica del surfer). E ogni tanto ci regala dei momenti illuminati di scrittura, come questo:

“Passeremo tutti oltre. Il tempo di lettura alimenterà il nostro desiderio di fuggire da questo mondo, allevierà le nostre sofferenze anche solo per qualche istante, per qualche ora o per qualche giorno. E poi continueremo a preoccuparci di nuovo dei nostri affanni, spesso subendo gli inconvenienti della vita, il campo, il presidente degli Stati Uniti, il Ministro dei Falliti Affari d’Italia, il nuovo ordine mondiale, l’Europa che non rappresenta nessuno, l’economia, la sovrappopolazione, la fame, le menzogne del Vaticano, la fuga dei cervelli, il lavoro che non si trova mai e se si trova è sottopagato; continueremo a prendere la stessa metro che non parte e non arriva, i lavori in corso che non sono in corso e l’unica cosa che scorre sono le parole e i vaffanculo della gente che aspetta. In un continuo flusso e deflusso, riflusso e surplus di significanti senza alcun significato definitivo.”

De Luca ha questo modo di scrivere che va poco di moda di questi tempi, è un tardo erede dei beat, e prima di loro di gente come Cendrars, i narratori dell’io, del vissuto, di tracciati esistenziali personalissimi e particolari, eppure in qualche modo universali. Non meraviglia che abbia faticato a trovare una casa editrice che lo pubblicasse: sicuramente gli avranno detto che questo stile non ha mercato. Perché poi alla fine è questa la filosofia di tanti talent scout ed editor: certi di avere in mano la magica ricetta del successo, appiattire tutto ai loro dogmi di facile digeribilità.

Be’, nonostante i frequenti refusi e occasionali sbavature, mi diverte di più leggere un libro come Karma Hostel che certi prodottini misurati rispettosi di tutti i precetti in voga nell’editoria italiana (che continua a perdere lettori, tanto quei precetti sono efficaci…). Mi tengo il surfer, l’illuminato, il matto, che però – e questo è forse il maggior pregio del suo libro – mi dice della Cina e dei cinesi, per averci vissuto bevuto mangiato e surfato insieme, cose che difficilmente troverete altrove. Cose molto interessanti, e spesso inquietanti: ma almeno è la voce di qualcuno che sette anni lì se li è fatti, e non chiuso in un albergo comunicando con l’interprete. Cosa rara, di questi tempi.