Questa volta il lettore abituale di Shirley Jackson resterà spiazzato. Posponendo infatti ad altra data la pubblicazione dell’ultimo suo romanzo perturbante che resta ancora non tradotto, Hangsaman del 1951, Adelphi preferisce dare ora la precedenza a un’altra faccia dell’imprevedibile scrittrice: la maestra dell’unheimlich, dell’unhomely, si fa cantrice assoluta dell’homely. Niente più case infestate, omicidi, stupri, delirio e follia: Shirley ha svestito i panni neri della strega per indossare la vestaglia e il grembiule domestico della mamma, e ci intrattiene, da brava casalinga, garbatamente affaccendata a cambiare pannolini, a preparare torte di mele per festicciole di compleanno, o ad accompagnare tre irresistibili piccole pesti – Laurie, Jannie, Sally (ma proprio nell’ultimo capitolo del libro le nascerà anche il quarto, Barry) – in giro, per asili, scuole primarie, giardinetti, nella sonnacchiosa cittadina del Vermont dove la famiglia Hyman/Jackson ha acquistato una spaziosa ma vetusta e piuttosto scalcagnata magione.
Life Among the Savages, pubblicato nel 1953, rispecchia il secondo mestiere, meno prestigioso ma più redditizio, della scrittrice: le collaborazioni lucrative a giornali per signore, come “Good Housekeeping” o “Woman’s Good Companion”, e a periodici popolari generalisti, come “Harper’s” e “Collier’s”. Shirley raccoglie e congloba i singoli pezzi già pubblicati su rivista con ampio successo presso un pubblico Lower middle class di lettori entusiasti – famiglie, massaie e goodwives – le cronache quotidiane delle adorabili buffonate (basate su fatti veri ma assai infiorettati e abbelliti) dei suoi tre bambini compresi fra i tre e i nove anni. Nel 1957, visto il successo di questo – le storie di bambini e di (presunta) serenità familiare vendono più di quelle a base di villain e di trame angosciose: lo square rassicurante prevale sul weird destabilizzante – seguirà un secondo analogo volume, Raising Demons. I demoni evocati, come i selvaggi precedenti, sono ovviamente dei teneri diavoletti: i ragazzi già cresciuti e diventati ormai quattro, ora c’è anche Barry. In qualche modo questi testi, decisamente minori rispetto al complesso dell’opera della Jackson ma comunque gradevoli, possono ricordare, almeno per certi aspetti, altri classici resoconti umoristici delle caotiche gioie della vita domestica in lingua inglese: ad esempio la trilogia familiare di Gerald Durrell (La mia famiglia e altri animali, L’isola degli animali e Il giardino degli dei). In entrambi i casi la costruzione del tono burlesco e ironico si regge sull’omissione e la rimozione – barando rispetto a ipotetiche intenzioni realistiche – di tutti gli aspetti dolorosi, sgradevoli, conflittuali della convivenza per soffermarsi solo su quelli, divertenti, pittoreschi e allegri.
Sia nel caso di Durrell che di Jackson, mai si parla, per esempio, di alcolismo e dipendenze – vizietti che affliggevano abbondantemente entrambe le famiglie in questione, né, nel caso di Shirley, viene sottolineato lo stress domestico o la schiavitù femminile al servizio di un marito fannullone, o il penoso sacrificio di parte della sua attività artistica e creativa per svolgere le non sempre così idilliache faccende casalinghe. Proprio la figura del marito, Stanley Edgar Hyman, quasi assente o presentato come mansueto pasticcione e imbranato in questo primo libro, dopo il deteriorarsi della loro relazione in seguito ai continui tradimenti di lui, verrà finalmente descritta in termini molto più acidi e meno tolleranti in Raising Demons. Dunque Shirley preferisce smentirsi o lasciare emergere un’immagine opposta di sé, degna di una delle personalità multiple del suo romanzo Lizzie, ribaltando completamente i toni e le atmosfere delle opere maggiori, e imponendosi di esaltare il positivo anziché di esplorare il negativo.
Con queste opere Shirley inventa il cosiddetto mommy blog, lo anticipa di decenni. Ma la sua raffinatezza di scrittrice emerge anche in questi esercizi meno ispirati: nel puntuale meccanismo di graduazione di un effetto climax costruito su dettagli accuratamente scelti, nell’onnipresente, ironico understatement, nell’incantata ripetizione di frasi chiave, nell’esatta e calcolata consapevolezza di dove iniziare e dove finire. Inoltre Shirley, nonostante l’argomento, evita sempre il luogo comune e non risulta mai stucchevole o mielata: la maternità non è mai sentimentalizzata o idealizzata, né lo sono i bambini: piccoli selvaggi, diavoletti, polimorfi perversi per dirla con Freud, insomma, per quanto si sforzi di tenerla a freno, un po’ della vecchia Shirley che più amiamo, salta comunque, in sordina, fuori.
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