Sradicamento e condanna all’erranza

Mahmud Darwish, Undici pianeti, tr. e cura Silvia Moresi, Editoriale Jouvence, pp. 85, €8,00 stampa, €6,99 eBook

Tornano in italiano i versi del grande poeta palestinese Mahmud Darwish (1941-2008) – finito tristemente al ‘macero’ dopo il fallimento della casa editrice Epoché – grazie al lavoro traduttivo e culturale di Silvia Moresi. Si tratta del primo titolo della collana “Barzakh” della milanese Jouvence, ed è il volume che aveva segnato il ritorno di Darwish alla poesia lirico-epica, anche come risposta a chi lo aveva accusato di aver schiacciato la sua produzione sulla causa palestinese.

Al centro del testo, a tessere i fili di una trama lacerata dalla nostalgia e dal dolore per una perdita irrecuperabile, c’è la questione dell’esilio: elemento autobiografico fondamentale per Darwish (nato in Palestina e vissuto in Libano e in Francia, morto negli Stati Uniti), qui poeticamente trasfigurato in nodo essenziale di un mondo complesso. L’esilio, sradicamento e condanna all’erranza, diventa in questo testo un movimento nel tempo: come se recidere i legami con la terra significasse essere condannati ad un vagabondare nel passato. Nell’esilio, l’identità è incompleta, “non troviamo il tempo per completare quel che siamo. / Tutto rimane immutato, ma il luogo cambia i nostri sogni”, si legge nella lirica “Ultima sera su questa terra”. Nell’esilio, l’identità si disfa anche nei suoi tratti corporei: “Presto uscirò dalle rughe del mio tempo e sarò straniero in Siria e in Andalusia”.

Questo libro è un viaggio avventuroso “fuori dal regno delle mappe”. Pubblicato nel fatidico 1992, esso richiama sia la cacciata nel 1492 di ebrei e arabi – allora conviventi felici – dal Sudest della Spagna, sia la conquista dell’America, avvenuta nello stesso anno. Ma richiama anche la Prima guerra del Golfo contro l’Iraq nel 1991: altro momento drammatico nel rapporto già conflittuale tra occidente e mondo arabo, quest’ultimo oggetto di feroci attacchi ‘orientalisti’: “Abbiamo strade che ci portano ai caffè. Rimbaud è nostro. / Abbiamo la tecnologia per distruggere l’Iraq”. La poesia ingaggia un confronto serrato con la contingenza, senza finire mai nella prosaica invettiva, quanto piuttosto in una presa d’atto delle terribili contraddizioni che presiedono al nostro tempo. “sulla terra non è rimasta alcuna possibilità per la poesia, / ma nella poesia c’è ancora una possibilità per la terra dopo l’Iraq?”, si chiede Darwish, richiamando la possibilità di fare poesia dopo Auschwitz, sollevata da Adorno.

Poesia come rifugio, luogo che accoglie l’evanescente. A svanire malinconicamente in questa silloge di Darwish è anche l’amore. In versi davvero struggenti, soprattutto nella lirica “L’inverno di Rita”, il poeta ricorda la passione giovanile, travolgente e impossibile, per una donna ebrea: “ha posato la sua piccola rivoltella sui fogli di una poesia appena iniziata, / ha lanciato le sue calze sulla sedia, il tubare delle colombe si è interrotto, / scalza è andata verso l’ignoto, e da me è arrivato l’esilio”. Versi d’amore e di violenza, perché dopo l’esilio – la ‘cacciata’ – il ritmo dell’esistenza conduce inesorabile alla divaricazione dei destini.