Il principe e l’isola azzurra: Steven Price racconta Tomasi di Lampedusa

Steven Price, Casa Lampedusa, tr. Piernicola D’Ortona e Maristella Notaristefano, Bompiani, pp. 304, euro 18,00 stampa

“Di Lampedusa era principe ma, come tutti i principi di quell’isola, non aveva mai visto le sue sponde e mai vi aveva messo piede.”

Sono queste le prime parole con cui Steven Price, affermato poeta e scrittore canadese, inizia a delineare il protagonista del suo ultimo romanzo Casa Lampedusa, che fa seguito a L’uomo di fumo (Bompiani, 2019) e ad altre opere di narrativa e sillogi poetiche pluripremiate in patria ma non ancora tradotte in Italia.

Il principe in questione è Giuseppe Tomasi di Lampedusa, noto alla letteratura come l’autore di Il Gattopardo, ma che nella narrazione di Price riveste il ruolo di personaggio letterario: un uomo malinconico e prostrato, che si affaccia alla vecchiaia con un malessere fisico ingravescente, che si rivelerà essere una grave patologia respiratoria. Il medico lo avverte che il suo vigore e la sua stessa vita stanno volgendo al termine, ma Giuseppe non ha sul momento il coraggio di rivelare la notizia a Licy (la principessa Alessandra Wolff Stomersee), moglie affettuosa e sensibile, psicanalista accurata, che unisce a un’eleganza aristocratica una variegata cultura e “un’intensità silenziosa e intelligente nel suo modo di ascoltare”.

La decadenza fisica, la vecchiaia e la malattia incombono, in parallelo con la decadenza del casato, che negli anni ha visto numerose proprietà distrutte o danneggiate dalla guerra e i proventi affievolirsi sia per incuria sia per i numerosi sovvertimenti sociali che hanno cambiato nel profondo la struttura economica della Sicilia.

Persino il palazzo Lampedusa, baluardo e simbolo palermitano della dinastia dei Tomasi, è ridotto a un cumulo di macerie e il principe vive ora in un alloggio più modesto, nel palazzetto di via Butera, dalle cui finestre si odorano le fragranze mediterranee del porto di Palermo.

Giuseppe soffre di questo progressivo depauperamento della stirpe non tanto per la ristrettezza economica, pur presente, con la quale è costretto a fare i conti, ma piuttosto per la mancanza della forte identità familiare di cui avrebbe bisogno, sia alle spalle sia davanti a sé.

“La sua vera casa si trovava, dietro spesse mura, qualche strada più in là: un franare di pietra spaccata e murature disfatte dal vento, per via di una bomba che aveva attraversato l’Atlantico […] era venuto al mondo su un tavolo di mogano in quel palazzo perduto di via Lampedusa, e in quella stessa stanza dov’era nato aveva dormito da solo in un lettuccio per tutta l’infanzia e fino all’età adulta, e per altri dieci anni persino dopo che si era sposato, e non avrebbe saputo dire chi era senza quella stanza in cui tornare.”

La mancanza di un luogo che lo rappresenti come persona, come erede della stirpe, si affianca ai numerosi lutti che hanno dilaniato la sua famiglia, ma anche alla mancanza di una progenie che ne protragga la memoria.

La figura materna, aristocratica e altera, divenuta con gli anni simbiotica e soffocante, cupa e dilaniata dalla precoce perdita delle tre sorelle, è renitente al cambiamento sociale, si ostina a vivere come uno spettro tra le macerie del vecchio palazzo nobiliare, e rinsalda continuamente il legame con il figlio, nel tentativo di vincolarlo al passato come un’ancora tragica.

Ma c’è anche il caro solare Gioitto (Gioacchino Lanza Tomasi), un lontano secondo cugino che porta una ventata di freschezza, di sagace interesse, di sincero affetto, nella vita del vecchio principe.

“Giò invece era tutto leggerezza e grazia, come un levriero, i capelli scompigliati, gli occhi socchiusi, i denti affilati.”

 Questa figura fresca, arguta, raggiante fa sì che Tomasi, spogliato della sua armatura morale di principe, di possidente, trovi la forza di prendere tra le mani la parola futuro. Per iniziativa della moglie Licy, il principe adotta ufficialmente il giovane Gioitto, dando così un erede al titolo nobiliare di Duca di Palma di Montechiaro, e conoscendo la paternità, se pur adottiva. Questo gli dona la forza di consolidarsi in un ultimo proposito, provando a distillare dalla propria resa l’ultima goccia di fiducia in sé: scrivere un romanzo, qualcosa che gli sopravviverà, portando la sua testimonianza di quella “agonizzante età feudale”, di quel mondo che gli ha dato i natali e cui lui appartiene, perpetuandone la memoria.

“Lavorava con sobria lucidità, una parte di lui s’era come staccata; sentiva crescere una concentrazione che dopo la giovinezza non aveva più conosciuto – liquida e poderosa e fredda e totale – e quando le parole rallentarono, rallentò anche lui; rimase in attesa, calmo, finché le parole tornarono e la mano ricominciò a muoversi, risoluta, ferma, morbida sulla morbida carta, i polpastrelli che bruciavano nell’ora tarda e furiosa.”

Il romanzo racconta la tardiva vocazione di scrittore di Tomasi, la sua lotta contro il tempo e la malattia, contro la mollezza della rassegnazione.

Ma Price è poeta, e tale – come indole – rimane.

Dunque se tipicamente il narratore racconta e intreccia, suggerisce e smentisce, gioca con i colpi di scena, il poeta evoca, sfuma, comunica significato, imprime i sensi. È questo che Price riesce a fare, e lo fa magistralmente, pur narrando con efficacia.

Non c’è ricerca di suspence né sulle vicende né sul finale, poiché molti sono particolari della vita di Tomasi che tutti conosciamo dalle cronache storiche. Ma ci si ritrova comunque in piccole sacche di sospensione e apprensione, a penare per il principe Giuseppe, chiedendosi se il cugino Lucio (n.d.r. Lucio Piccolo) – poeta affermato e introdotto negli ambienti letterari grazie al plauso di Eugenio Montale – metterà da parte particolarismi e gelosie e intercederà per lui presso l’editore milanese; se i veri genitori di Gioacchino consentiranno l’adozione; se la madre lascerà infine i fasti macilenti del vecchio palazzo oppure aderirà fino in fondo all’abbraccio venefico del simbolo del suo casato.

Mentre la vita del vecchio principe scorre ovattata tra malinconie e rammarichi, la catena di diagnosi sempre più perentorie e definitive lo sequestra e lo scaglia verso il suo ultimo destino. È lì che il rimpianto, pur rimanendo sul fondo come un bordone, lascia spazio a una timida energia di reazione, fiacca, malata, ultima sì, ma che diviene infine potente della sua regale sofferenza.

“Sei colmo di speranza, amore mio. È per questo che sei triste.”

 Così la sua Licy, al rifiuto del romanzo da parte del primo editore.

In un gioco lieve di flashback e ritorni al tempo presente di cui il lettore non soffre né, a volte, si avvede, tanto appaiono naturali e ben congegnati, si dipana una storia che è atmosfera, riflessione, poesia.  L’infanzia luminosa in seno a una famiglia della più antica aristocrazia siciliana, i paesaggi ventosi, assolati, logori del disperato incanto di una Sicilia sontuosa e condannata; i lutti, la guerra, la prigionia nel campo ungherese di Szombathely; infine il tepore dell’amore maturo ma radicato con Licy, fino a un pacato invecchiare, sfiorire, comprendere.

In Casa Lampedusa c’è una Palermo allucinata e impietosa che intaglia la malinconia in una grazia struggente, con i suoi  “lastricati polverosi, le macerie dell’ultima guerra”, una città “demoniaca, acquattata, rovente”; c’è un continuo chiaroscuro tra i ricordi – quello che avrebbe potuto essere – e il presente, che rende palpabile delusione e disamore, con quella stessa atmosfera di decadenza, di posata rassegnazione, di bellezza corrotta che pervade Il Gattopardo; c’è un controcanto garbato tra la prosa di Tomasi e quella di Price, nella descrizione dello sfarzo caduco e molle dei giardini, nel miele della luce di Sicilia, nel decoro ottuso delle antiche glorie nobiliari, nel loro sensuale effluvio di morte.

Ma c’è soprattutto l’incanto del poeta, con descrizioni ispirate, con una tensione lirica costante, dove oggetti e luoghi divengono allegorie profonde dell’animo umano: Lampedusa è una scheggia di terra remota, avvolta nella foschia e nell’abbraccio di un mare fiabesco e terribile, un’Itaca mai raggiunta, accesa da una luce verticale che taglia gli occhi: “un’isola di fuoco, ai confini del mondo”; ma è anche un oltre, è al di là, è il non luogo che ognuno di noi accoglie in una piega della coscienza, dove risiede la nostra vera essenza, nobile e perduta.

“Dall’arco disfatto di una finestra il mare era una distesa di barbagli, come monete scintillanti. Strinse gli occhi, li schermò con la mano. Da qualche parte, al di là della caligine azzurra dell’orizzonte, stava un’isola azzurra, un’isola fatta di nulla. Lampedusa.”

Al principe malinconico, esiliato dal suo vero sé, piegato dalla vita, non rimane che raccogliere quel poco che ancora può plasmare, quella manciata d’anni che ancora gli è concessa per esprimere sé stesso, per lasciare un’immagine, un’eredità, un segno di essere esistito.

“Stendhal credeva nella vita eterna? Aveva scritto che ogni uomo, per quanto insignificante, avrebbe dovuto lasciare qualche cronaca del tempo che aveva trascorso su questa terra, una raccolta di ricordi ed esperienze. Era quella la sola vita eterna.”

Il principe Giuseppe morirà senza sapere dell’esito positivo del suo sforzo, ignaro del fatto che il suo romanzo stregherà generazioni di lettori, letterati e scrittori. Fino a conquistare un giovane poeta canadese di successo, che, sentendo sottopelle la sofferenza antica delle vicende di vita del nobile gattopardo, ne inseguirà i dettagli in una Sicilia malinconica e arcana, tuttora chiusa nel suo fascino immobile, fosco e ammaliante.

Casa Lampedusa è un’opera metanarrativa di gran pregio, dove si racconta di un uomo, di come la sua malattia lo salvi, infine, dall’oblio, intrecciandosi indissolubilmente alla sua arte; un canto del cigno intriso di oscurità e luce insieme, una grande allegoria della vita, un’opera in prosa intrisa di poesia del vivere.