Tesi a confronto sulla rivolta

La rivolta è un’esperienza autosufficiente, il cui senso sta interamente nell’azione, vissuta come gioco intenso e liberatorio da chi vi partecipa. Per questo non ha senso giudicarla insufficiente o ridurla a semplice fase di passaggio verso la rivoluzione. Una riflessione a partire dal saggio di Benjamin S. Case, Rivolte di strada. Al di là della violenza e della nonviolenza, Meltemi editore

Al di là della violenza e della nonviolenza, recita il sottotitolo1. A significare che quella contrapposizione tanto cara alla causa pacifista non ha alcun senso, soprattutto oggi che le rivolte sono all’ordine del giorno e il tema è oggetto di riflessione da parte della sociologia urbana e della filosofia politica. Oltre quella dicotomia, dunque, perché la rivolta si nutre, indifferentemente, di violenza e nonviolenza. Ci guardiamo intorno − scrive l’Autore − e ovunque vediamo rivolte. Volente o nolente, non resta che prenderne atto. Da qui, però, a voler accettare la rivolta per quella che è, ovvero un evento ormai familiare, ce ne passa. Troppe le resistenze messe in campo da chi, a destra, teme per l’ordine costituito e da chi a sinistra − la sinistra professionalizzata come la chiama l’Autore − è convinto che qualsiasi distruzione di proprietà, sabotaggio strategico o scontro con la polizia rischia di demolire le dinamiche che determinano il successo dei movimenti. Un quadro a noi familiare anche se è degli Stati Uniti che qui si parla, ma con la rivolta veramente tutto il mondo è paese.

Benjamin S. Case affronta il tema da ricercatore e attivista in un’ottica sociologica attenta a decifrare della rivolta proprio la sua carica conflittuale. Cosa che non hanno fatto invece i teorici della cosiddetta strategia non violenta statunitensi verso i quali la polemica è la più aspra. Il loro impegno non violento, sostiene, laddove persiste, riflette un attaccamento speranzoso all’ordine neoliberista basato sui diritti. Inaccettabile per chi si è lasciato travolgere dal fervore rivoluzionario di Occupy Wall Street e ha respirato l’aria di Zuccotti Park immaginando la rivoluzione dietro l’angolo.

Anche la sua ricerca sociologica si serve di numeri e modelli, attinge alle stesse raccolte dati, fa propria le analisi statistiche degli avversari, in una parola è anch’essa ricerca quantitativa, ma con la consapevolezza dei suoi limiti che vengono, una volta denunciati, superati con un approccio al tema questa volta qualitativo. Cosa pensano i protagonisti delle rivolta, quale la loro esperienza soggettiva in strada? Già, in strada perché, mai dimenticarlo, le rivolte accadono nella strada. La strada è lo spazio della rivolta. E siccome il titolo del saggio lo enuncia a chiare lettere nella forma di un genitivo possessivo, il concetto meritava forse un approfondimento. Ma tant’è 2.

Con l’intervista siamo alla conricerca, nata sociologicamente negli Usa. Noi la conosciamo nella sua versione italiana finalizzata, soprattutto negli anni Sessanta, alla costruzione di nuove forme dell’agire politico in fabbrica. Un agire politico, si badi, di parte e però volutamente contrapposto al semplice racconto sociologico che intenzionalmente ignora il segno profondo delle lotte e che, se alla soggettività di parte accenna, è solo per mostrarla completamente disincarnata.

Per il nostro Autore invece a contare sono proprio le emozioni che il rivoltoso prova quando scende in strada. Una botta di vita, la rivolta, capace di infondere in chi vi è coinvolto anche una sensazione generativa come quando il rivoltoso assapora il gusto della libertà, quel “posso fare questo e quello”.

Questa forte domanda di libertà non vale solamente per il black block statunitense, qui identificato con il militante anarchico e al quale vanno le simpatie del Nostro, ma vale per tutti quelli che scendono in strada. A prescindere.

Di Zi, Em, Ely, Owe, Jay, Geo − gli intervistati − nulla sappiamo. Come campano? Che lavoro fanno? Al nero, dipendente, forse autonomo formalmente, di fatto servile? Domande da vecchia inchiesta operaia, quando parlare di classe aveva un senso e la conricerca nella sua dimensione processuale era pensata come un agire politico ben determinato. Ma oggi che la metropoli ha preso il posto della città-fabbrica e la posta in gioco non è più il lavoro fisso da custodire gelosamente per tutta la vita e la precarietà la vivi come possibilità di crescita e ricchezza?

Il libro di Case non risponde a nessuna di queste pur legittime domande che un lettore italiano, memore delle inchieste alquatiane alla Olivetti e Mirafiori, invece si pone. Non ne parla perché nessuno dei rivoltosi intervistati ne parla e non solo perché, come possiamo immaginare, il Case sociologo ha voluto lasciare ampio spazio alla soggettività dei suoi interlocutori. Gli è che il lavoro agli occhi degli intervistati ha cessato di essere un valore.

Figure, questi ultimi, prive di status sociale, certamente antistituzionali perché estranee alla partecipazione partitica e alle sue forme di rappresentanza, individualiste anche e nondimeno unificate da forme collettive di conflittualità qual è per l’appunto la rivolta. Gli enunciati che ricorrono sono altri e tutti hanno a tema la libertà, certamente negativa, ma che la violenza esercitata in strada contro l’autorità e il suo simbolo, la polizia, trasforma in una forza sociale dirompente. Senza dimenticare quella esercitata contro la proprietà privata con il saccheggio di negozi e supermercati.

Non si capisce – però – cosa abbia in comune una violenza siffatta con quella di cui parlano Fanon e la Arendt, autori ampiamente utilizzati da Case per legittimare la violenza degli odierni rivoltosi. Fanon era un rivoluzionario impegnato nella rivoluzione dei popoli coloniali, la Arendt una filosofa della politica che sul finire della sua vita azzarda una radiografia del Novecento alla luce del concetto di violenza senza mai trascendere, proprio come Fanon, l’orizzonte storico della rivoluzione3. La violenza per entrambi resta quella della rivoluzione con la sua logica strumentale e i suoi fini, i suoi teorici e i suoi eroi. Ma la rivolta di strada, anonima per definizione, è un’altra cosa, come mostra la sua temporalità: un movimento nel momento. Se la istituzionalizzi, diventa qualcos’altro. E ancora: l’apparente caos della sommossa, la sua anarchia − che è sempre vista come un difetto da coloro che cercano di controllare i movimenti − alla fine significa anche che, come forma di lotta, non ha la capacità di diventare istituzionalizzata. Come dire che la rivolta non è teleologica e che la sua violenza non è mezzo per alcun fine. In più, una violenza di bassa intensità se paragonata a quella della rivoluzione, sempre armata e rispetto alla quale poco o nulla hanno a che fare le scritte sui muri, i negozi assaltati e svuotati, le vetture date alle fiamme, il lancio di bottiglie incendiarie, gli scontri con la polizia. Quasi un gioco, la rivolta, se anche il suo frutto è contenuto nell’azione stessa. E come ogni gioco, divertente, emozionante ed elettrizzante per chi, è il caso di tutti gli intervistati, vi partecipa. A che pro allora denunciarne l’insufficienza, pensarla come un ponte, una porta da attraversare per passare dalla resistenza alla rivoluzione? La rivolta, per il suo disordine, la sua anarchia, la sua eccezionalità, è sempre un evento conchiuso. Come il gioco con la sua ricorsività sempre nuova e creativa.

1 B. S. Case, Rivolte di strada. Al di là della violenza e della nonviolenza, Meltemi editore, Milano 2025

2 Sul tema M. Ilardi, Negli spazi vuoti della metropoli, Bollati Boringhieri editore, Torino 1999 e In nome della strada. Libertà e violenza, Meltemi editore, Roma 2002

3 F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi editore, Torino 1967; H. Arendt, Sulla violenza, Guanda Editore, Parma 1996