Tommaso Landolfi / L’elzeviro sullo scrittoio

Tommaso Landolfi, Un paniere di chiocciole, Adelphi, pp. 320, euro 24,00 stampa, euro 12,99 epub

È probabile che Tommaso Landolfi sia, con Gabriele D’Annunzio e Carlo Emilio Gadda, lo scrittore nazionale che con maggiore efficacia e inventiva ha modellato, plasmato, distillato e reinventato la lingua italiana piegandola ai propri fini letterari. Uno scrittore per scrittori, potremmo dire, troppo colto, elegante e raffinato per fomentare un largo seguito di pubblico. Non un autore minore, dunque, come qualche sprovveduto gazzettiere ha osato definirlo, giudicando solo in base al criterio del numero di copie vendute, ma quanto a rilevanza stilistica e influsso ispirativo, uno dei prosatori più autorevoli della nostra narrativa.

Erto e impegnativo riguardo alla forma, Landolfi non lo fu meno riguardo ai temi che di preferenza amava affrontare: se è alquanto riduttivo volerlo incasellare tra gli sparuti alfieri della narrativa fantastica, è pur vero che il solitario aristocratico ciociaro – nato a Pico Farnese in provincia di Frosinone nel 1908 e morto a Ronciglione in provincia di Viterbo nel 1979 – ha saputo giocare con le atmosfere e i temi del gotico, del surreale, del grottesco e del visionario come forse nessun altro suo contemporaneo. L’amico e illustre critico Carlo Bo diceva – trovando concorde Italo Calvino che ne antologizzò nel 1982 le pagine più belle in una raccolta ideale per chi voglia avviarsi alla sua scoperta (Le più belle pagine di Tommaso Landolfi scelte da Italo Calvino, Adelphi 2001) – che Landolfi poteva sembrare uno scrittore francese di fine Ottocento, un decadente come Huysmans, Barbey d’Aurevilly o Villiers de L’Isle Adam, e questo non solo sul piano letterario ma anche su quello esistenziale. Landolfi infatti coltivò con solerzia in letteratura il suo personaggio: sdegnoso, appartato, febbricitante, preda del demone del gioco, della passione erotica come nell’Imp of the Perverse di Poe.

Laureato a Firenze in letteratura russa, da questa lingua, come dal tedesco e dal francese, è stato uno dei più fini traduttori serbando l’impronta degli autori tradotti: Gogol, Dostoevskij, Novalis, Mérimée, Nodier; il loro romanticismo notturno ha forgiato il suo immaginario creativo rendendolo quasi un corpo estraneo nel contesto della letteratura italiana della sua epoca. Un magnifico perdente che esordisce negli anni Trenta su riviste letterarie fiorentine come “Letteratura” e “Campo di Marte”, e pubblica la prima silloge di racconti brevi nel 1937 sotto il titolo di Dialogo dei massimi sistemi, volume stampato in solo duecento copie, passando poi alla storica casa editrice Vallecchi, che ben poco farà per promuovere la vendita dei suoi libri così inattuali. Solo il contemporaneo Jorge Luis Borges nella lontana Buenos Aires sta svolgendo negli stessi anni, con la sua Historia Universal de la Infamia del 1935, un percorso letterario che può avere una qualche analogia filosofica, speculativa e mitografica con la narrativa landolfiana.

Ineguagliabile affabulatore nella grande tradizione dei notturni, dei grotteschi e degli arabeschi senza trascurare l’espressionismo allucinato di testi apparentemente realistici (come Un amore del nostro tempo del 1965 – Adelphi 1993 o Tre racconti del 1964 – Adelphi 1998) o autobiografici (come i “meta-diari” La bière du pécheur del 1953 – Adelphi 1999, Rien va del 1963 – Adelphi 1998, e Des Mois del 1967 – Adelphi 2016), in cui i “fatti” si deformano e si trasferiscono in una dimensione onirica e inquietante pervasa da una profonda angoscia esistenziale, da un male di vivere inestinguibile, dalla febbre dell’abbandono incondizionato al demone del gioco – ossessione che afflisse Landolfi al punto tale da farlo trasferire a Sanremo, negli ultimi anni della sua vita, solo per poter frequentare quotidianamente il casinò – metafora definitiva della dissipazione dell’esistenza. Anche questo suo impervio disagio rende per tutta la vita Landolfi un isolato e, forzatamente, i suoi testi misconosciuti e “minori”, nonostante la stima e il sostegno di letterati rinomati come Mario Soldati, Eugenio Montale, Bo e Calvino: solo la ripubblicazione graduale di tutte le sue opere – all’inizio curate dalla figlia Idolina Landolfi (1958-2008) – per Adelphi restituirà finalmente una degna visibilità a questo grande scrittore. L’ultima uscita landolfiana è Un paniere di chiocciole del 1968, una raccolta di 50 elzeviri (altri 50 erano già stati pubblicati da Adelphi nel 2019 con Del meno del 1978), brevi testi narrativi pubblicati sulla terza pagina de “Il Corriere della Sera”. Un genere, l’elzeviro, di cui Landolfi (come Emilio Cecchi, o il collega Dino Buzzati) era diventato uno dei maggiori esponenti nel nostro paese. Per soldi, perché no, gran parte dei quali finivano sul tavolo della roulette, e ultima dimostrazione di eccellenza, perché un elzeviro sulla terza pagina di un quotidiano importante non lo scrive un semplice giornalista ma uno scrittore affermato, indiscusso. Qui Landolfi ci offre un ulteriore esempio non del suo “mestiere” – vista l’origine alimentare di questi sfoghi letterari – ma della sua arte, ripercorrendo magistralmente un po’ tutti i temi, i toni e gli assilli delle sue opere maggiori e giungendo spesso fino al capolavoro, come nel racconto “vampirico” Il bacio, che giustamente Calvino includerà nella sua antologia delle pagine più belle.