Claudine a scuola, Claudine a Parigi, Claudine sposata, Claudine se ne va
(Diario di Annie)
Nel 1941, in una Parigi occupata dai nazisti, la vecchia scrittrice si rifugia nei ricordi. Ricompone il passato nel Journal à rebours, esattamente quarant’anni dopo l’inizio del suo noviziato letterario. E, con spietata franchezza, Colette dissacra se stessa: “No, non sono capace di scrivere… Nella mia gioventù non ho mai, mai desiderato scrivere… (…) Nessuna voce camuffandosi nel suono del vento mi ha sussurrato, con un piccolo soffio freddo nell’orecchio, che dovevo scrivere, e perseverare, e offuscare scrivendo la mia fervente o placida percezione dell’universo vivente”.
Colette non mente. Le biografie neppure. Infatti, nell’appassionato e rigoroso Colette. Una vita libera e condizionata di Michèle Sarde (Bompiani, 1981), bibliografia alla mano, nel fluviale elenco di opere, Claudine à l’école compare al primo posto, seguita da Claudine à Paris, Claudine en ménage, Claudine s’en va. Solo degli ultimi due si sono conservati i manoscritti originali, e il nome di Colette non compare sul frontespizio dei quattro romanzi pubblicati da Ollendorff dal 1900 al 1903, scritti a ritmo forsennato su pagine di quaderni a righe. Non dissimili, s’immagina, da quelli che la quindicenne Claudine riempie, compostamente ribelle, sui banchi di una scuola di provincia. Enfant sauvage dalla grazia impudente, creatura letteraria già finemente cesellata, eppure a suo modo stravagante, se non fosse per i retroscena della sua stessa nascita.
IL BEL MATRIMONIO
Bizzarra opera prima, il ciclo di Claudine, abbraccia la gioventù di Gabrielle Sidonie Colette (1873-1954) scritta da un’annoiata e inconsolata “Madame Willy”, vale a dire moglie dal 1893 di Henry Gauthier-Villars (1859-1931), noto nell’ambiente artistico e mondano con lo pseudonimo di Willy. Discendente da illustri famiglie francesi, Henry, già prima dei trent’anni si dedica con dilettantesco fervore a poesia e fotografia, per poi entrare, anno 1887, nella casa editrice paterna dove, scrive Michèle Sarde, “in quel periodo ha un ufficio al pianterreno (…) luogo d’incontro delle celebrità di fine secolo”: Paul Verlaine, Claude Debussy, Marcel Schwob, Pierre Louÿs, tanto per dare l’idea.
Due anni più tardi Henry comincia a pubblicare, sulle prestigiose riviste dell’epoca, cronache musicali in forma di lettere: saranno le “Lettres de l’ouvreuse”, ma non solo, a sedurre con fatali conseguenze la giovanissima Gabrielle. Fidanzamento e matrimonio, cela va sans dire. Matrimonio tutt’altro che borghese, il rampollo di belle speranze è già stato “ripudiato” dalla famiglia: la sua esuberanza amatoria gli ha procurato qualche guaio e una pessima reputazione. Le nozze con la figlia di un esattore di provincia, caduto in disgrazia, sono l’ennesimo scandalo per l’incallito viveur.
Gabrielle, jeune fille en fleur, non è all’oscuro dei trascorsi amorosi di Henry e, tuttavia, vuol cedere alle lusinghe di una vagheggiata intimità nuziale, illusa che l’ars amandi del maturo compagno sia all’altezza delle aspettative. Ad attendere Gabrielle en ménage sarà Parigi e un malinconico appartamento in rue Jacob, una mondanità bohémienne e pochi nuovi fedelissimi amici (Marcel Schwob e Paul Masson, in primis), capaci di apprezzare l’intelligenza caustica della ragazza dalle lunghe trecce e lo spiccato accento borgognone, e di scacciare i fantasmi della sua malcelata tristezza. Quanto ad Henry, per lui Gabrielle, ribattezzata Colette, è soltanto una moglie da accudire e da tradire, compagna di notti bianche, testimone di un’irresistibile ascesa letteraria.
È lui, impenitente dongiovanni e ignaro pigmalione, a “sussurrare” un giorno a Colette: “Dovreste buttar giù i vostri ricordi di scuola. Non abbiate paura di dettagli piccanti, potrei forse ricavarne qualcosa… I fondi sono scarsi…”. A firmarla, onde evitare piccanti malintesi, sarà Gauthier-Villars: noto, come si è detto, nel Tout-Paris come Willy.
IL TALENTO DI MONSIEUR WILLY
“Il solo libro che Willy scrisse interamente di mano sua, e da cui non si separava mai, era il prezioso libro dei conti” afferma lapidaria Michèle Sarde: “era considerato il più grande critico musicale del tempo (…) Specializzato in storie scollacciate, leggere, Willy per la sua vita e le opere che ha firmato ha un posto più nella sociologia della vita letteraria della Belle Époque che nella storia della letteratura”.
A differenza dei “negri” miseramente stipendiati dal prolifico consorte, Colette non viene messa a libro paga. La stesura di Claudine à l’école, intrapresa nell’ottobre 1895, si conclude nel gennaio 1896: la ragazza, che non aveva mai desiderato scrivere, produce alacremente ben 646 pagine, non prima di aver compiuto, insieme al marito, una sorta di pellegrinaggio a Saint-Sauveur (nel romanzo, Montigny), là dove gli echi di un’adolescenza felice riverberano potenti insieme ai ricordi. Tuttavia, nonostante la dedizione dimostrata da Colette, Willy è insoddisfatto. Solo quattro anni dopo, ritrovato il manoscritto, ne intravvederà il potenziale commerciale. Basta solo ritoccarlo un po’, dargli un’allure decisamente più osée, come impone il gusto parigino dell’epoca: “Non potreste mettere un po’ di pepe a queste puerilità? Per esempio, tra Claudine e una delle sue compagne nasce un’amicizia troppo tenera (…) E poi gergo, molto gergo… e un’aria un po’ sbarazzina… Capite cosa intendo?”. Colette intende e si rimette all’opera.
Mi chiamo Claudine e abito a Montigny, dove sono nata nel 1884; ma probabilmente non ci morrò. (…) L’incanto e la bellezza di questo paese (…) sono i boschi (…) Ho vissuto in questi boschi dieci anni di una vita vagabonda e smarrita, di conquiste e di scoperte, e il giorno in cui dovrò abbandonarli proverò un grandissimo dispiacere.
Naturale che in Claudine – indomabili capelli ricci e gli occhi quasi indecenti – Colette abbia ritoccato se stessa. Basta osservare una foto del 1888: una quindicenne Gabrielle, mollemente seduta su un’amaca, fissa languida il fotografo, sorriso appena abbozzato, lunghissime trecce che quasi sfiorano terra. Come Claudine, sembra più grande della sua età, non altrettanto smaliziata però.
Mi chiamo Claudine: la ragazzina, intenta a scrivere le sue “memorie” scolastiche, si delinea via via grazie al piglio seducente della voce, all’intemperanza a stento repressa dal bon ton. Frequenta l’ultimo anno della scuola superiore, ma del diploma che conquisterà senza fatica non sa ancora che farsene. Grazie alla ridondante biblioteca del padre – strambo entomologo interessato più alle abitudini delle lumache che alla figlia orfana di madre – Claudine, curiosa lettrice, ha già divorato Balzac e il Dizionario filosofico di Voltaire, tutti i numeri della Revue des DeuxMondes e del Mercure de France, le opere (non proprio per giovinette…) di Pierre Louÿs e Léon Daudet. Un solitario apprentissage, insomma, che la distingue dalle altre compagne (e complici) di indisciplinate avventure: Claire, sorella di latte, “con dei begli occhi sognanti e un’anima romantica; la lunga Anaïs, bugiarda, malandrina, adulatrice“; le due sorelle Jaubert, “occhi di una malinconica dolcezza, come quelli degli agnelli“; Marie Belhomme, timida lepre graziosa. Fanciulle alle quali andrà ad aggiungersi la piccola Luce Lanthenay (poi ritrovata in Claudine à Paris) sorella minore della signorina Aimée (personaggio inventato da Willy), quest’ultima oggetto del desiderio di Claudine e della nuova severa istitutrice, la brutta e antipatica signorina Sergent.
Nell’affollato gineceo, teatro di amori saffici e palpitanti serrements de coeur, non mancano le figure maschili: due maestri, Antonin Rabastens e Armand Duplessis, tanto fascinosi quanto ingenui, e Dutertre, attempato ispettore scolastico sensibile all’acerba avvenenza delle allieve di Mademoiselle Sergent.
Le licenziosità imposte da Willy, dunque, si affacciano scopertamente già nel primo capitolo del libro, ma, al di là dei “dettagli piccanti” che ne decreteranno lo scandalo, in Claudine à l’école Colette dispiega il suo talento. Non solo nei dialoghi frizzanti e nel tono screziato delle voci, bensì, soprattutto, nelle squisite descrizioni di personaggi e paesaggi (l’amata Borgogna, naturalmente), nella godibile smussata mise en scène di semplici quadretti domestici – Claudine e la gatta Fanchette, presenza discreta e rifugio sentimentale, alla quale la futura autrice dei Dialogues de bêtes(1904) dona carattere e dignità, leggerezza angelica e sensualità terrena – o di corali affreschi paesani. La grande festa repubblicana per l’inaugurazione del rinnovato complesso scolastico di Montigny è narrata, sin dai fervidi preparativi, con divertita puntigliosità: lo sguardo di Claudine, simile a un’indiavolata macchina da presa, vagabonda lieve e sagace da una scena all’altra, coinvolgendo il lettore in un tourbillon di musica e colori, prima che la nascita del giorno sancisca l’inizio di un’altra storia. E di una scrittrice.
L’AMORE IL POMERIGGIO
“Il ritegno del mio sesso mi ha solo costretto a fare qualche taglio e ad attenuare alcuni passaggi di una franchezza agreste un po’ brutale”, scrive Willy nella prefazione a Claudine à l’école (1900) spacciato per un manoscritto inviato da una sconosciuta… Colette, moglie sottomessa, sta al gioco. In fondo, quarantamila copie vendute in due mesi non sono cosa da poco. Così, eccola nuovamente al lavoro su Claudine à Paris (1901), dove le spensierate rimembranze di Gabrielle lasciano spazio ai tableaux vivants di una città ipocritamente immorale, e ai timori e tremori di una diciassettenne nostalgica. La penna arguta e dissacrante di Colette anche stavolta taglia e rimodella personaggi reali e fittizi, memore della fauna di quel caleidoscopico Tout- Paris in cui Willy l’aveva da subito introdotta.
Trasferitasi a Parigi per capriccio paterno (chissà se qualche editore pubblicherà il suo trattato di Malacologia del Fresnois?) per Claudine non è subito colpo di fulmine. Preferisce mille volte vagare sola lungo i viali del Luxembourg, ammirare il Louvre e cedere all’incanto dei grandi magazzini, che rispettare i noiosi doveri parentali. Ignara che il salotto bianco e alla moda di zia Coeur riserva inaspettate sorprese per la ragazza assetata d’esperienze: nientemeno che i due futuri mentori della sua precoce educazione sentimentale. L’effeminato cugino Marcel, schiavo d’amore del coetaneo Charlie, poi confidente di Claudine, e suo padre Renaud, quarantenne raffinato e colto, amorale tombeur de femmes che mal sopporta l’acclarata omosessualità del figlio. Tra concerti pomeridiani allo Châtelet e passeggiate notturne lungo i boulevard, Claudine, rifiutata la prima proposta di matrimonio (troppo goffo e insignificante il giovane assistente di papà!), si ritrova perdutamente innamorata di Renaud, ebbra di un sentimento mai provato per nessuno, pronta a concedersi ces plaisirs anche nei panni dell’amante se le “convenzioni” borghesi prevarranno sulle ragioni del cuore. A prevalere, però, sarà l’amore di Renaud, il desiderio sincero di sposarla.
“L’amante paterno (…) il voluttuoso protettore“ dispensa alla sposa inesperta momenti d’ozio amoroso e Claudine li assapora giorno dopo giorno, devota alla piacevole e lenta corruzione dell’amore carnale. Terzo atto. Nuovo scandalo. A chi credeva che l’autrice (sic) circoscrivesse la passione a un intimo erotico memoir si sbagliava di grosso.
L’attrazione ricambiata per la bellissima Rézi, moglie infelice di un colonnello inglese, sfocia presto in quotidiani rendez-vous: complice il tè e un bacio rubato, ecco rinascere in Claudine le mai sopite pulsioni saffiche. E per eludere la montante gelosia del colonnello, qual miglior nido d’amore per le due amiche di una piccola garçonnière scovata da Renaud? Compiacente ma non masochista, il marito libertino, pur amando profondamente Claudine, non ha perso il vizio di sedurre: l’escamotage tanto ben orchestrato serve a mascherare il suo tradimento con Rézi. Oltraggiata, delusa, ferita a Claudine resta il coraggio di fuggire da se stessa, ovvero tornare a Montigny.
COLETTE S’EN VA
Popolare quanto il suo incontenibile artefice, Claudine à Paris approda a teatro. A interpretarla, il 22 gennaio 1902 al Bouffes-Parisiens, è Polaire, celebre vedette del music-hall. L’identificazione è totale, sconvolgente. E Willy, non pago del successo, fa di Claudine un brand: di lì a poco tiene a battesimo il lancio di “prodotti commerciali ispirati alle ‘opere di Willy’– un profumo, un cappello, una cipria di riso, sigarette e lastre fotografiche” – documenta Michèle Sarde. Alimentando, al contempo, lo scandaloso ménage à trois del terzo romanzo uscito nel 1902, imponendo a Colette e Polaire di tagliarsi i capelli, e di vestirsi come due gemelle: insieme alle sue “bestiole agghindate”, “l’uomo dalle due scimmie” sfoggia il proprio ego negli ambienti esclusivi della capitale. Mentre la moglie gelosa e distrutta sta già abdicando (almeno sulla carta) alla disinibita liaison che l’ha costretta a una condizione umiliante.
D’ora in poi, biografia e finzione letteraria si sovrappongono.
Il ritorno di Claudine a Montigny e l’aut-aut imposto a Renaud, con una lettera leale e sofferta, non rappresentano una resa bensì una presa di coscienza. “Mi sento ridiventare pianta (…) io, qui, sono più bella, più affettuosa, più onesta”, confessa nel diario: il mondo vegetale e animale cui da sempre appartiene, istintivamente, è l’unica panacea al mal d’amore e se Renaud rifiuterà il suo invito a raggiungerla, allora, tutto è perduto. Il finale aperto di Claudine en ménage è più che un colpo da maestro. Letto in controluce è una dichiarazione d’intenti, il preludio a una libertà dovuta che in Claudine s’en va (1903) – uscito in traduzione italiana con il titolo Claudine se ne va (Diario di Annie) – la protagonista Annie, femme revoltée e io narrante del romanzo, troverà il coraggio di inverare.
Opacizzata un’eroina ormai ingombrante e alla quale i lettori non dedicano più la morbosa curiosità degli esordi, Colette affonda il coltello nella piaga. Il matrimonio di Annie e Alain travolge la fanciulla remissiva, ma la lontananza di un marito teneramente dispotico, un soggiorno a Bayreuth – scenario abusato di incontri proibiti e meschinità coniugali – nonché i preziosi consigli della saggia Claudine (ora consorte appagata di un ammansito Renaud), faranno sbocciare in Annie pulsioni inespresse. Lasciare Alain. Vivere sola. Affrontare il mondo.
Nel 1906 la separazione da Willy è un dato di fatto. L’autrice dei Dialogues de bêtese Minne (1904), l’attrice dilettante, l’allieva (e poi partner sui palcoscenici del music-hall) del celebre mimo Georges Wague viene messa alla porta proprio dal marito: “Non ero giunta a inventare il lirismo della cacciata”, commenterà con sottile ironia ne Il mio noviziato. Femme publique suo malgrado, Colette la vagabonda varca, così, la soglia di quel demi-monde che non l’ha mai discriminata. A suo agio tra bellezze androgine, sfiorite cocottes e vestali di Saffo. Ora disperatamente libera di assaporare “la voluttà di scrivere, la lotta paziente contro la frase che si affina, si arrotola come una bestia addomesticata – l’attesa immobile, l’agguato che finisce per imprigionare la parola” (da La vagabonda nella traduzione di Anna Banti).
CLAUDINE EN ITALIE
Claudine à l’école appare per la prima volta in Italia nella traduzione di Laura Marchiori (Gherardo Casini Editore, 1955; Rizzoli, 1955). Nel 1958 seguono Claudine à Paris, Claudine en ménage, Claudine s’en va – sempre tradotti da Laura Marchiori – poi raccolti in edizione integrale (Rizzoli, 1985; Gherardo Casini Editore 1987). Con la stessa traduzione li ripropone singolarmente, nel 1993, la casa editrice E/O.
Nel 1995 la Biblioteca economica Newton pubblica una seconda edizione integrale comprendente Claudine a scuola (tr. Gianni Rogardi), Claudine a Parigi, Claudine sposata, Claudine se ne va (Diario di Annie) (tr. Elena Faber). Ultima in ordine di tempo la raccolta di Romanzi e racconti di Colette: le Claudine aprono il corposo volume curato da Maria Teresa Giaveri (Mondadori, 2000).
Tutte le citazioni sono tratte da le Claudine, eccetto l’ultima, estrapolata da La vagabonda (Mondadori, 1977, tr. Anna Banti).