“Un esercizio di storia virtuale”. Sul filo di una straniante affinità con la fantascienza controfattuale – quella che, per capirsi, interroga gli sviluppi storici che avrebbero potuto verificarsi in condizioni alternative – si snoda il piccolo ma densissimo libretto di Antonio Attisani La rivoluzione artistica di Francesco (Rasoi, Cronopio, 2025).[1] Partendo da due differenti contesti socioculturali, quello di Francesco, giullare di Dio, e quello del santo folle Thangtong Gyalpo, vissuto tra il quattordicesimo e il quindicesimo secolo in Tibet, l’autore cerca di “delineare altri possibili esiti” attraverso “un’attenta valutazione dei dati storici e delle condizioni controfattuali”, che vedono il nostro medioevo imboccare uno sviluppo materiale e una conseguente etica per allontanarsi progressivamente dall’istanza francescana, al contrario dell’altra “età di mezzo”, che vive “un proprio peculiare medioevo nell’ambito del quale si privilegiava lo sviluppo spirituale”. Esiti che la nostra storia avrebbe potuto avere a partire da Francesco se…
“E se…?” proprio a partire da questa domanda in sospeso si potesse ripercorrere l’intera storia dell’Occidente, non solo del teatro, di cui Attisani si è occupato per tutta la vita, ma della vita stessa di tutti noi attori del grande teatro dell’esistenza? È quello che il saggio prova a fare definendo innanzitutto il soggetto di questa storia, quel “noi”, che si presenta qui come corpo, “corpo che è teatro”, come dal concetto originale dovuto a Jean-Luc Nancy, [2] Cioè “non corpo che fa teatro ma corpo che è teatro” – prosegue Attisani – “da cui derivano religione e arte.” Poche parole, queste ultime, che capovolgono quel senso comune che vorrebbe invece il teatro derivato dalla religione.
Se il teatro, come qui è visto, è la vita nella sua particolare prerogativa performativa di un ethos del trascendimento, cioè di quella capacità, mai acquisita una volta per tutte, di trascendere la natura in valore umanamente operabile, allora la “pazzia” di Francesco è tutto meno che l’ ”eccezione” che conferma la “regola”; in questo caso della santità. Piuttosto è l’exemplum riuscito della trasformazione di una metafora in realtà (la predicazione della povertà) e del conseguente rifiuto di quella “tendenza all’astrazione” che la modernità assume come suo elemento costitutivo.
Una povertà nuova e inedita quella suggerita da Francesco che non ha nulla da spartire con la miseria che è invece prerogativa dell’ingiustizia sociale che caratterizza l’individualismo di massa del mondo odierno. Una povertà che si basa su “un sapere superiore, non analitico ma intuitivo” che, come teorizzava, in un passato a noi più prossimo, Jerzy Grotowski, mette “in discussione i protocolli rappresentativi del moderno e la loro finalità nella prospettiva di un trascendimento consapevole.”

Quel Ethos del trascendimento che costò tante critiche di irrazionalismo a De Martino e che potremmo anche un po’ parodiare nella raffigurazione del barone di Munchausen mentre si tira fuori dalla palude (insieme al suo destriero) tirandosi con una mano su per il codino. Come si trascende dalla natura, in forza di quali capacità innate o acquisite? Quello di De Martino è certamente un escamotage che giustamente problematizza al posto di risolvere; ma qui, invece, nella tesi di questo libro la risposta è data: il trascendimento possibile, l’uscita, l’estasi o la “verticalità” (Grotowski) e il necessario rientro, cioè la enstasi, saranno possibili proprio e solo a partire dal riconoscimento di un’interiorità custode di un’essenza: “ciò che non si è ricevuto dagli altri, ciò che non viene dall’esterno, che non si è imparato.” Il cammino dell’umanità non può che essere quindi un cammino verso questa essenza originaria, dimenticata, che dovrà portare l’uomo esteriore a morire come condizione indispensabile per la nascita dell’uomo interiore.
Questa è la tesi (se corretta e non ho troppo semplificata) di fondo del libro ed è la tesi rispetto alla quale quelli che come me si ritengono “diversamente” materialisti sono chiamati a rispondere non in modo liquidatorio, aspro forse sì, ma che deve consentire la possibilità di far emergere, o quantomeno intravedere, un possibile spazio per un nuovo tipo di materialismo che non necessiti di stabilire alcuna sorta di amicizia con lo spirituale, non essendo più definibile un reale confine tra i due ambiti. Potremmo anche dire, prendendo una felice definizione di Paolo Virno: “un materialismo dalle spalle larghe, né esorcistico, né riduzionista, tale cioè da accogliere in sé, impostando altrimenti, i problemi più intricati della tradizione speculativa moderna.”[3]
È ovvio, umanamente più che comprensibile, il desiderio di una via d’uscita che ci permetta “un’alternativa all’individualismo di massa”, ma è difficile immaginare che quanto qui viene prospettato: “l’insularità, il farsi isola, luogo ospitale per alcuni e inospitale per altri, luogo di uno spietato lavoro su se stessi, qualcosa che è al tempo stesso solitudine e socialità”, possa essere una reale “liberazione da un orizzonte concettuale che porta alla dipendenza di mondi immaginari e tossici”. Ahi noi, il “corpo teatro” temo (o forse per fortuna, dipende dai punti di vista) non si gioca in nessun luogo insulare, non esistono luoghi protetti. Anche questi alla fine sono immaginari, se non propriamente tossici, quantomeno illusori nella loro promessa di una via d’uscita con annessa garanzia di rientro. Ma l’uscita è sempre un rischio così com’è l’incontro con l’altro, con cui si desidererebbe potersi fondere, ma che cozza inevitabilmente con un limite, mai determinato in un confine preciso, ma che resta comunque invalicabile.

E allora il teatro che potremmo auspicare, volendo seguire fino in fondo l’affascinante ipotesi controfattuale di questo discutibile (e in quanto tale importantissimo) testo di Attisani, contrariamente a quanto sostenuto, non dovrebbe vedere alcuna conciliazione tra “attori che dimostrano o che agiscono in base alla pretesa di spiegare ai loro spettatori impigriti come va il mondo” e “attori che fanno” cioè che ci pongono “di fronte a una teatralità altra, rispetto al senso comune e a una prassi della religio che implica una sollecitazione straordinaria del corpo teatro nella sua totalità”, un teatro che seguendo l’azione della povertà ambisce “a conquistare un sapere superiore, non analitico ma intuitivo” in cui la tecnica, al contrario della prassi ormai acquisita “emerge dal compimento, vale a dire che il sapere è in ciò che è fatto.”
Non può esservi armonia tra queste due istanze diverse, ma solo quel necessario conflitto che è base della vita stessa, della sua potenza creatrice che, paradossalmente crea anche la possibile coesistenza tra diversi. Perché tutti noi siamo attori di storie diverse che si intrecciano e derivano con e dalle altre, rendendo così possibile il nostro esistere. “Non può esistere alcuna ‘politica culturale’, alcun progetto di sviluppo del teatro, ma soltanto la ridefinizione di una politica all’interno della quale il teatro viene aiutato a distruggersi dallo sviluppo di mille nuove forme di teatralità consapevole”[4]
È allora forse ancora questa auspicata distruzione la chiave per una via d’uscita che contempli un possibile rientro in termini di trasformazione, del divenire incessante, motore creativo della vita in tutte le sue forme e modi. Un divenire capace di creare spazio, “divenire sempre più sobrio, sempre più semplice, divenire sempre più deserto, e attraverso ciò, popolato” (Gilles Deleuze e Claire Parnet, Conversazioni, Ombre Corte). In questa auspicata “involuzione” possiamo intravedere forse un’altra forma di povertà, una traduzione contemporanea dello spirito di Francesco? Sicuramente una sfida per cercare “insieme, di riconoscere nella tenebra del presente la luce che, senza mai poterci raggiungere, è perennemente in viaggio verso di noi[5]
E cos’altro potrebbe essere un “nuovo” teatro di fronte a un nuovo mondo che ci fa apparire sempre più stranieri, anche a noi stessi?
- Sempre in questa collana nel 2024, l’autore ha pubblicato con Lea Melandri La vita impresentabile. Femminismo e corpo teatro. Un dialogo). ↑
- Jean-Luc Nancy, Corpo teatro, Cronopio, 2010 ↑
- Promemoria su Ernesto De Martino, Studi culturali, A. III, n.1, giugno 2006 ↑
- A. Attisani, Teatro come differenza, Feltrinelli, 1978 – Essegi Edizioni, 1988 ↑
- Giorgio Agamben, Che cos’è contemporaneo?, Nottetempo, 2008 ↑