Nel 1925 William Faulkner viveva nel quartiere francese di New Orleans, immerso nella scena intellettuale e bohémien della città. Nella sua abitazione di Pirate Alley, all’ombra della cattedrale di St. Louis, lavorava probabilmente a due romanzi contemporaneamente, oltre a collaborare al Times-Picayune con dei bozzetti ispirati alla vita locale (che sarebbero poi stati raccolti nei New Orleans Sketches). È un periodo molto produttivo per il giovane aspirante scrittore, che abbandona gradualmente la poesia e lo stile di ascendenza romantica per avvicinarsi al modernismo, di cui di lì a poco sarebbe diventato uno dei massimi esponenti. Fra i compagni con i quali si dedica a infinite discussioni letterarie – e presumibilmente allo svuotamento di generosi bicchieri di mint julep – c’è Sherwood Anderson. Winesburg, Ohio, pubblicato sei anni prima, era stato un caso letterario: l’insopportabile e incontentabile H.L. Mencken l’aveva definito “tra i più mirabili esempi di scrittura americana dei nostri tempi”. Anderson era anche molto attivo come mentore della nuova generazione di scrittori: famoso il suo tormentato rapporto con Ernest Hemingway, che riuscì a ottenere un contratto editoriale proprio grazie ad Anderson, ricambiando poi la cortesia con Torrenti di primavera, ferocissima parodia dell’opera di quest’ultimo.
Nello stesso anno in cui Hemingway pubblica il suo tutto sommato necessario parricidio, il 1926, Faulkner dà alle stampe Soldiers’ Pay (da noi, La paga del soldato). Anderson è ancora una volta cruciale nel permettere la pubblicazione del romanzo. Pare infatti che accettò di consegnare il manoscritto al proprio editore, Boni & Liveright, a patto però di non doverlo leggere. Da impenitente ammiratore dell’opera di Faulkner, e altrettanto appassionato studioso della sua opera, devo ammettere con estrema riluttanza che il cavillo introdotto da Anderson fu indubbiamente uno stratagemma brillante. Leggendo La paga del soldato, la prima impressione che sale alla mente è come sia possibile che lo stesso scrittore avrebbe pubblicato un capolavoro indiscusso come L’urlo e il furore solo tre anni più tardi. Si tratta infatti di un romanzo viziato da una serie di problemi piuttosto evidenti e talvolta francamente fastidiosi, che vanno dallo stile all’intreccio, affliggendo anche i dialoghi e la costruzione dei personaggi, fino all’architettura generale del testo. Un’opera incerta nella costruzione e nell’esecuzione, che mostra chiaramente i segni del lavoro di composizione, l’eterogeneità delle ispirazioni (di per sé, certo non un difetto) e la ricerca ancora in fieri di una solida voce autoriale.
È la storia di Donald Mahon, reduce della Prima guerra mondiale terribilmente sfigurato nel corpo e nell’anima dall’esperienza al fronte, e del suo ritorno a casa in Georgia, scortato da una malinconica donna dai capelli corvini e dal soldato Joe Gilligan, di lei perdutamente innamorato. Come diversi scrittori della sua generazione – Hemingway, Fitzgerald, Dos Passos, per nominare i più noti – Faulkner non fu immune al fascino della Grande guerra, all’eroismo romantico e in definitiva ingenuo del soldato temprato dal fuoco e dal fango delle trincee. Ma non raggiunse mai il fronte. Si arruolò infatti nella Royal Air Force canadese, non arrivando però più lontano di Toronto, dove compì il periodo di addestramento obbligatorio prima di essere congedato il 4 gennaio 1919. Leggenda vuole che, al ritorno a Oxford, Mississippi, Faulkner sfoggiasse spesso la sua divisa della RAF, intrattenendosi in racconti di una guerra mai combattuta e fingendo addirittura una zoppia, a sua detta causata da una ferita ricevuta in battaglia.
Come Fitzgerald, che non attraversò mai l’Atlantico ma romanzò poi il conflitto nei suoi primi romanzi, Di qua dal paradiso e Belli e dannati, Faulkner sembra cedere alla mitologizzazione, per quanto tragica, di una guerra mancata, significativamente quasi del tutto assente dalla diegesi come a sottolinearne il ruolo di simulacro, di oggetto fantastico e fantasmatico utile come centro di gravità per una narrazione che si nutre di ombre e tall tales ma tenta in ogni modo di eludere la Storia. Ed è proprio qui che La paga del soldato, nonostante i difetti palesi, diventa un interessantissimo oggetto di analisi, soprattutto in riferimento alla produzione successiva, che può retrospettivamente suggerire delle chiavi d’interpretazione per questo romanzo anomalo e spesso frustrante. La Prima guerra mondiale è lo spettro attorno al quale Faulkner costruisce l’intreccio, ma se solleviamo il sudario che l’autore ci agita di fronte possiamo scorgere quale sia davvero il revenant nascosto dietro alle pagine – quello di un conflitto ben più decisivo nella definizione dell’immaginario dell’autore e del sud natio. Sto parlando ovviamente della Guerra civile americana, immenso rimosso che torna senza sosta a tormentare l’inconscio del meridione e che infesta tutta l’opera di Faulkner. Era del resto inevitabile che l’autore si volgesse all’inesauribile sorgente di storie che la Guerra civile ha lasciato in eredità al Sud. Faulkner crebbe infatti in un contesto fortemente segnato dalla memoria dell’insurrezione meridionale: il bisnonno, William Clark Falkner, era stato un colonnello dell’esercito confederato e una figura leggendaria della contea di Lafayette. Le cronache di una guerra coeva non potevano certo superare la malia dell’epica, il mito di una guerra sepolta eppure vivissima, già saldamente al centro del folklore locale e le cui tracce erano disseminate ovunque nel paesaggio materiale e spirituale del Mississippi.
Non si tratta di una reductio ad unum che appiattisce l’indubbia profondità di uno degli scrittori più articolati e complessi della prima metà del Novecento americano, quanto di un inevitabile disvelamento che permette di ricondurre il trauma bellico alle radici de La paga del soldato al vero mileu di appartenenza: non quello delle trincee europee, ma il mondo altrettanto fatale dello scontro fra confederati e unionisti, spartiacque imprescindibile della storia del Sud. È Faulkner stesso a confessarlo obliquamente quando, in Non si fruga nella polvere (1948), scrive di come la mente del Sud bianco continui ossessivamente a rivivere “l’istante in cui non sono ancora le due del pomeriggio di quel giorno di luglio del 1863”. Il riferimento è alla famigerata carica del Generale George Pickett dell’esercito confederato durante la battaglia di Gettysburg, che si risolse in un disastro per l’Armata della Virginia Settentrionale e segnò l’inizio della disfatta per gli stati secessionisti, poi definitivamente sconfitti due anni più tardi ad Appomattox.
È forse il passaggio più celebre di tutta l’opera dell’autore – “Il passato non è mai morto. Non è nemmeno passato”, da Requiem per una monaca (1951) – a dimostrare come il presente in Faulkner sia perennemente tormentato dalla Storia, stretto in un’inesorabile coazione a ripetere che, nell’illusione della controfattualità (“cosa sarebbe successo se?”) non fa altro che rivivere in eterno uno sconvolgimento culturale mai interamente sanato. Di recente, in un saggio audace e affascinante, The Saddest Words, Michael Gorra ha mostrato come il Sud romanzesco di Faulkner – “una terra dove il passato sepolto continua a camminare, non è stato ma è, e sempre arde nel pensiero” – sia impensabile se privato del suo cuore traumatico, che è da ritrovarsi proprio nella disfatta confederata. L’opera dell’autore, scrive Gorra, è figlia di una guerra e una guerra essa stessa: una lotta ininterrotta e dall’esito incerto con la memoria e il significato della ribellione sudista.
Ed ecco allora che il ritorno a casa di Mahon (dato per morto e pianto dai suoi cari, ma che riappare all’improvviso sconvolgendo gli equilibri della sonnolenta provincia meridionale dalla quale proviene) altro non è che la riemersione di una storia irredimibile che si vorrebbe sopita, ma che tormenta implacabile la quotidianità malsicura di una società colpevole, riluttante nell’ammettere gli errori e gli orrori perpetrati e quindi ripiegata in un ostinato diniego. Attraverso questa lente, la galleria di personaggi spesso stereotipati e sempre affettati che popolano il romanzo divengono proiezioni di un mondo altrettanto artificiale: quello della Lost Cause, ovvero del revisionismo storico attivamente messo in atto dal meridione immediatamente dopo il conflitto ed esploso soprattutto al giro di secolo. Secondo la riscrittura operata dagli apologeti della Lost Cause, il Sud prima della guerra era una nazione nobile, un paradiso neo-feudale popolato da guerrieri valorosi e dame tanto belle quanto frivole. Una società cavalleresca fondata sull’onore che esisteva in una sorta di sospensione temporale, del tutto separata dalla frenesia e dalla volgarità della società moderna rappresentata invece dalle industrie e dalla finanza spregiudicata del Nord. Non tanto un’illusione quanto una patente falsificazione, messa in discussione più volte dallo stesso Faulkner, che pure dimostrò sempre una relazione ambigua con la propria cultura, criticandola a più riprese ma dichiarando di essere pronto a lottare per la sua sopravvivenza. Il caso più lucido ed evidente è probabilmente contenuto nel racconto “L’orso”, parte di Go Down, Moses (1942), nel quale Ike McCaslin rifiuta la propria eredità, convinto che la terra del Sud sia maledetta, e che la distruzione del mondo antebellum sia stata una punizione divina per il peccato originale della schiavitù.
Ma il passato, per l’appunto, non muore. Il volto orribilmente sfregiato di Mahon è quello di una cultura che, nonostante i tentativi di nasconderle, porta in bella evidenza le tracce di un passato interamente iscritto nella violenza; la sua mente distrutta, la schizofrenia di una società incapace di conciliare la Storia e il presente e quindi di pensare e attuare la propria redenzione. La stessa nevrosi di Quentin Compson de L’urlo e il furore (1929), risospinto senza sosta nella memoria e nell’alienazione; irresistibilmente attratto dalla morte.
A leggere la conclusione de La paga del soldato, nella quale il canto proveniente da una chiesa afroamericana echeggia nell’aria fino a spegnersi, “svanendo nella campagna illuminata dalla luna con l’inevitabile domani”, viene in mente proprio l’ultimo capitolo de L’urlo e il furore, nel quale i gospel pasquali di una congregazione nera celebrano la resurrezione suonando allo stesso tempo come un requiem per la famiglia Compson e il Sud tutto. Ad assistere alla funzione, accompagnato dalla domestica afroamericana Dilsey, c’è Benjy Compson, figlio disabile della decaduta stirpe terriera che, come Mahon, diviene suo malgrado sineddoche di un meridione paralizzato, muto, fuori posto e fuori tempo. Il Sud a cui, seguendo il consiglio illuminante di Sherwood Anderson, Faulkner dedicherà praticamente l’interezza della sua produzione successiva, immortalando a tinte fosche ma non senza amara ironia la crisi di un mondo (giustamente) sconfitto, colto al crepuscolo di una gloria posticcia e sulla soglia di un domani incerto, ma carico dei presagi di ulteriori tragedie. Nelle righe finali, due personaggi si avviano di notte lungo una strada di campagna illuminata dalla luna e lì il narratore li abbandona: in cammino verso i giorni futuri ma circondati dalle tenebre. Ombre presenti che adombrano più fonde ombre a venire.


