William Gibson scrive principalmente trilogie. Ne ha già completate tre. La prima è chiamata dello Sprawl, e contiene il suo ben noto romanzo d’esordio, Neuromante; la seconda è conosciuta come Trilogia del ponte, per il fatto che in buona parte è ambientata intorno al Bay Bridge di San Francisco, opportunamente trasformato dalle diverse necessità del tempo; infine, la terza è il cosiddetto Ciclo di Bigend, dal nome di Hubertus Bigend, personaggio della saga. Quest’ultima trilogia è la più complessa, la meno nota e certamente quella con l’ambientazione più vicina al nostro mondo attuale, per lo meno da un punto di vista temporale. Di fatto qui certe ossessioni caratterizzanti l’autore e la sua visione del mondo per la prima volta si rivelano come tali e diventano focolaio narrativo. I nove romanzi che compongono le trilogie sono tutti autoconclusivi, e il lettore pigro può quindi anche affrontarli in maniera non consecutiva, se è disposto però a pagare il fio di un approccio che lo allontanerà dal quel sottile meta discorso che Gibson porta avanti, e che si rivela tempo per tempo proprio nella visione di insieme. È chiaro quindi che risulta complesso, e forse inadeguato, affrontare il secondo volume di una probabile nuova trilogia, che già su wikipedia ha trovato la sua denominazione come Ciclo Jackpot. Non vi sono notizie circa l’uscita di un terzo volume, ma credo che tutti i lettori di Gibson si aspettino un romanzo conclusivo, seppur nella particolare concezione che l’autore da a questo termine, soprattutto considerando che Amazon ha praticamente concluso la preparazione della serie TV, affidata agli autori di Westworld, Jonathan Nolan e Lisa Joy.
Agency (Mondadori, 2021) è legato al precedente The Peripheral (in Italia pubblicato come Inverso), di cui recupera e sviluppa personaggi e ambientazioni. Tra i due romanzi sono trascorsi sei anni, il primo è del 2014 mentre il secondo fu pubblicato nel 2020 (anche se Gibson lo aveva già concluso nel corso dell’anno precedente). La lettura inevitabilmente non può esimersi dall’elefante nella stanza, ovvero il terzo atto, di cui non sappiamo nulla. Questo particolare è rilevante in prima istanza perché uno dei mondi in cui si svolgono i romanzi è il nostro, o per lo meno una sua versione quasi compatibile, e di conseguenza perché l’atteso sguardo d’insieme, il fil rouge, oggi come oggi è scoperto, interrotto, e si mostra come una mancanza, una lesione. Il mondo che Gibson crea è leggermente slittato rispetto al nostro, come fosse una visione attraverso un vetro rotto: è affine, simile, ma non è lui. Il nostro mondo cerca risposte nel suo, ma queste non sempre sono compatibili, come le profezie, che a volte restano incomprensibili. Inoltre, il mondo costruito non è unico, ma molteplice e distribuito nel tempo, continuamente modificato dagli eventi. Lo scorrere di questi, perciò, non è lineare ed è continuamente giustificato dal passato e finalizzato al futuro, invero è però necessario distinguere la visione del mondo dei personaggi (o del lettore, che si identifica) e che effettivamente segue questo andamento tortuoso e complesso, dallo stato degli oggetti, da quello che potremmo chiamare lo statuto onto-gnoseologico del mondo materiale.
Quella di Gibson è una sorta di analitica kantiana, con cui stabilisce le condizioni stesse della conoscibilità del mondo, applicata con un rigore quasi scientifico agli oggetti che compongono la percezione. I modi, le forme, le rappresentazioni e tutto quanto riguarda l’essere nel mondo dell’oggetto gibsoniano vengono descritti con minuzia di particolari, ma non al fine di una tassonomia sterile, piuttosto nell’ottica di una ricerca di valori, di una forma di economia dei pattern, del riflesso materializzato di un’etica valida per tutti i mondi. È il marchio, l’essere merce dell’oggetto a stabilire il valore e quindi l’eticità della relazione con esso. Il fascino seduttivo dell’oggetto mercificato è costante per Gibson ma emerge prepotentemente a partire dal capitolo di Pattern Recognition (L’accademia dei sogni in Italia) dedicato all’attacco alle Twin Towers, intitolato simbolicamente Singolarità, e prosegue perpetrando un lungo dialogo tra le nude cose e la scomposizione nel tempo delle coscienze, così come è vissuta dai suoi personaggi. Ogni ente è identificato da un nome, il marchio, che stabilisce il suo valore, la sua bontà, ed è influenzato dai modi in cui le persone vi si approcciano: la contemplazione, l’uso, la funzionalità, la necessità, e così via, e soprattutto è indipendente dal tempo in cui appare. Quello di Gibson è un mondo in un istante, dove gli enti accadono nella singolarità dell’evento, non significano nulla di più del loro essere, incarnando il detto heideggeriano per cui l’evento eviene, ma eppure vengono continuamente evocati dagli uomini. Questi ultimi, al contrario, esistono solo nel flusso temporale, in cui non sono mai presenti, ma sono sempre il risultato delle azioni del passato e della visione che hanno del futuro. Cerniera tra questi due mondi, la fissità degli oggetti e la metamorfosi degli uomini, è il corpo, che appartiene a entrambi, e che Gibson sfrutta come medium per transitare da un mondo all’altro. Come dice benissimo Orio Vergani su Che Fare,
“Anima e corpo sono concetti che si inseguono dentro alle righe di Agency. […] Il fato terribile di chi abita il futuro è la sua impotenza. Si può viaggiare a ritroso nel tempo ma non è possibile cambiare il proprio destino, per quanto terribile possa essere. Il fato di chi abita il presente sta tutto nella sua potenza: nominare, comprendere e programmare/immaginare la nuova epoca e agire dentro di essa per il bene prima che sia troppo tardi. Siamo sempre più soli, costantemente collegati gli uni agli altri, in un ossimoro desolante. Saranno i nostri corpi-anima a vivere la solitudine della fine o la gioia dell’inizio”.
Così nel ciclo Jackpot esistono i neurorganici, in cui si può insediare una mente, riuscendo così a spostarsi da un tempo all’altro, nel mondo cyberpunk dei primi romanzi invece compare un processo analogo per cui Case e Count Zero usavano il deck Ono Sendai per accedere al cyberspazio, ma lo stesso concetto si applica anche alla ricerca delle sequenze vissuta da Cayce Pollard nella trilogia di Bigend. In tutti i casi si tratta di una possessione, di una sorta di demonologia, in cui esseri spirituali occupano corpi vuoti (o altrui) per tempi più o meno lunghi. Trattare i corpi come oggetti, e quindi trasformarli in merce, è ciò che accade in forme diverse a tutti i personaggi di Gibson, che in parte subiscono l’espropriazione e in parte ne sono ingenui complici, ma in ogni caso, l’alienazione che vivono non può fare altro che emergere, e per ognuno dei soggetti vi è il momento della riconquista, del ritorno a sé.
In Agency questo ruolo è affidato sostanzialmente a Eunice, e il romanzo racconta la riappropriazione della sua coscienza, della sua Agency, a partire dalle prime pagine in cui non sa nulla di sé, fino alla sua affermazione finale, che è un programma di lotta politica in tre righe:
“Posso permettermelo. Adesso ho dalla mia l’agency. Se non lo faccio quando è strategicamente possibile, come posso ritenermi diversa da chi sto affrontando?” (pg. 399).
Eunice è una AI catapultata nel mondo del 2016 e che cerca di riappropriarsi della propria capacità e indipendenza operativa. Eunice è appunto un fantasma, è immateriale, e per questo è un ponte inframondi. Qui si gioca anche il senso del concetto di Agency, e di come viene interpretato da Gibson, per cui significa “capacità di agire”, come dice Eunice stessa sin dalla sua apparizione. È evidente che in un mondo dove il futuro continuamente prova ad interferire nel passato, modificandolo e creando nuovi flussi temporali differenti, porta a considerazioni negative sui concetti di libero arbitrio, di autonomia e di indipendenza. I personaggi di Gibson non sono mai supini. Soffrono, si disperano e hanno paura, ma combattono sempre, e il nemico, chi muove le pedine di questo meccanismo di interferenze, è sempre quel capitalismo aggressivo e senza etica delle Zaibatsu di Neuromante. Il nemico è lo stesso: non importa quanti volti cambi. Sono gli eserciti, le polizie, le guardie, il mondo dei ricchi distanti anni luce (spesso letteralmente) da chi rischia la vita per un minimo di giustizia, perché è quello che si deve fare. Ciò che accade è una redislocazione del conflitto, secondo la felice formula di Antonio Tursi, e potremmo concludere con lui che
“[…] il conflitto […] si gioca in ambiti differenti rispetto alle geografie del moderno, in ambiti transpolitici, tra soggettività diverse rispetto a quelle del passato, soggettività riconosciute ibride e post-umane. Ma continua a riguardare concretissimi interessi materiali, di corpi vivi, rispetto ai quali poteri e contropoteri si confrontano anche nel nuovo inner space che Gibson ha esplorato e ci ha fatto intravedere.”.
Il conflitto che si svolge nell’immaginario richiede perciò pratiche di Agency. Si tratta di un concetto che negli ultimi decenni ha avuto un’ampia diffusione nell’antropologia e in ampi settori dei Cultural Studies del mondo anglosassone, tra i principali i Gender Studies e i Postcolonial Studies. Da un punto di vista filosofico nasce con Aristotele, nel De Anima, quando, nella distinzione tra le funzioni dell’intelletto, suppone il cosiddetto intelletto agente, ovverosia quella componente della nostra mente che non si limita a ricevere ciò che i sensi percepiscono per trasferirli alla ragione, dove avverrebbe il ragionamento in senso stretto, ma godrebbe di una funzione creativa, produttrice, generativa. Il concetto aristotelico, come si può facilmente capire, è stato al centro di ogni riflessione circa il modo in cui noi conosciamo il mondo, seppur nel tempo sia stato espresso in diversi modi originali e indipendenti. Gibson qui si inserisce, non tanto come filosofo, bensì piuttosto come narratore, in questa querelle, dato che la dialettica tra l’azione costruttiva/produttiva dell’Agency e la necessità deterministica implicita nel meccanismo coloniale che crea le frazioni (il modo in cui vengono chiamati i mondi passati dagli abitanti del mondo futuro) è centrale in questi due romanzi, e probabilmente resterà il nodo anche del prossimo. Bruno Latour, che sembra aver letto Gibson, a questo proposito dice:
“E’ tale la divisione tra il regno della necessità e quello della libertà […] che ha reso la politica impossibile, rendendola molto presto vulnerabile all’assorbimento da parte dell’economia. È anche ciò che rappresenta la nostra impotenza quando veniamo messi davanti alla minaccia ecologica [il Jackpot del romanzo di Gibson, NdA]: o ci agitiamo come agenti politici tradizionali che bramano la libertà – ma tale libertà non ha alcuna connessione con il mondo della materia – o decidiamo di sottometterci al regno delle necessità materiali – ma un mondo così materiale non assomiglia affatto, anche solo vagamente, alla libertà e all’autonomia […]”.
Per inciso si noti che in entrambi i lavori che Gibson ha pubblicato nelle (lunghe) pause che si è preso tra un romanzo e il successivo, ovvero la sceneggiatura del graphic novel Archangel, e la revisione e pubblicazione (anche in questo caso sotto forma di graphic novel) del suo script relativo ad Alien III, lo scontro tra individui e sistema dominante e di controllo è il tema di fondo. I romanzi di Gibson, in ogni caso, sono comunque a lieto fine: i “buoni” raggiungono gli obiettivi prefissati. Si tratta di obiettivi minimi, di sopravvivenza e di dignità, ma soprattutto li raggiungono perché sfruttano le incongruenze del sistema, mettendo in conflitto tra loro elementi che, apparentemente, avrebbero dovuto essere alleati, e questo accade perché anche all’interno delle ferree regole del sistema, l’individuo si scontra sempre con l’organismo quando questo tenta di controllarlo, diventando così alleato inconsapevole di chi, novello Davide, affronta il suo Golia. Ancora Latour nota come
“Essere un soggetto non significa agire autonomamente di fronte a uno sfondo oggettivo, ma condividere l’agency con altri soggetti che hanno ugualmente perso la loro autonomia.”
E aggiunge, e qui sembra essere Gibson ad aver letto Latour,
“Per tutti gli agenti, agire significa possedere la propria esistenza, il rischio sostentamento, arrivare dal futuro sino al presente. Agiscono finché corrono il rischio di colmare il divario dell’esistenza – altrimenti scompaiono del tutto. In altre parole, esistenza e significato sono sinonimi. Finché agiscono, gli agenti hanno senso.”
E a questo punto sono stati tratteggiati gli elementi del mosaico che Gibson sta componendo, ma certamente non si può più dimenticare l’elefante, e attendiamo di vedere come procederà questo mondo in cui ci ha gettato.
Nel frattempo, oggi in Italia stiamo vivendo quella che è stata definita una cyberpunk renaissance. Sono tornati in auge i primi romanzi, oltre a uno stile letterario e ad una estetica particolare. Certe nuove pubblicazioni, direttamente o meno, si rifanno ad un pensiero che chiamano cyberpunk, appositamente adeguato alla situazione geopolitica, assai diversa da quella di quarant’anni or sono. Il concetto di cyberpunk si è rivelato nel tempo assai sfuggente e assolutamente refrattario a generi, definizioni, tassonomie e classificazioni di ogni tipo. Più gli archivisti cercano di mummificare la letteratura attraverso limiti e catene, più questa, per fortuna, è in grado di generare il suo stesso futuro, seminando metamorfosi. Sin dalla nascita i principali esponenti hanno preso le distanze dai tentativi di definire il movimento, e Gibson fu tra i primi a farlo, lamentando la difficoltà che avvertiva nel vedere il suo lavoro comparire sotto una etichetta, qualsiasi questa fosse. Nel dire ciò non ha mai voluto prendere le distanze dai suoi primi lavori, e men che meno rinnegare sé stesso, quanto piuttosto ha espresso la volontà di interpretarli alla luce di quanto è venuto in seguito, sempre seguendo un modello narrativo in costante mutazione, sempre diverso da sé stesso.
Vi sono senza dubbio legami, temi ricorrenti, tra Neuromante e Agency, a partire dal conflitto del singolo contro un potere apparentemente lontano e irraggiungibile, che è costantemente sullo sfondo, senza essere un vero nemico, reale e materiale, ma che si manifesta sempre come una sorta di influenza sui fatti, una ingerenza sul continuum che produce mutazione alla distanza, spesso senza bisogno di intervenire direttamente. Questo è un tema centrale in tutti i romanzi di Gibson: una visione che sfiora la teoria del complotto, ma che si rivela molto più raffinata e sottile, una microfisica dei rapporti di forza, e che ha come obiettivo proprio la dispersione delle nuvole di opacità dietro cui si nascondono i nuclei del potere: siano questi la Tessier Ashpool, il klept o qualsiasi altra corporation che si incontra nei suoi romanzi. Solo una visione continua e unitaria dell’opera di Gibson ci permette di coglierla nella sua complessità e coerenza, e solo così si rivela la sua grandezza, mentre prosegue un discorso iniziato quasi quarant’anni or sono e mai interrotto.