Nel marzo del 1970 Adam Włodek, editore ed ex marito di Wisława Szymborska, inviò alla poetessa un vecchio dattiloscritto con un appunto che recitava: “Cara Wisełka, ho deciso di giocare all’editore bibliofilo dei tuoi juvenilia per celebrare in un sol colpo i venticinque anni del Tuo sensazionale debutto a stampa (14 marzo 1945) e del nostro primo contatto personale. Nella trepidante attesa che tu manifesti le Tue ‘sensazioni contrastanti’, resto a disposizione per ogni ulteriore azione!”.
Il dattiloscritto consisteva nella prima silloge in assoluto della Szymborska: le liriche erano state scritte fra il ’44 e il ’48, quando Wisława aveva appena cominciato la sua carriera artistica. Composto da testi già pubblicati e assoluti inediti, il corpus si configurava come prova generale di un libro che sarà edito soltanto nel 2014 con la casa editrice Znak di Cracovia, a cura di Artur Czesak (che però non figura nelle indicazioni bibliografiche essenziali). Insomma, Canzone nera – questo è il titolo, non imposto dall’autrice – è “il primo biglietto da visita di una poetessa destinata, mezzo secolo dopo, a vincere il premio Nobel”, e ora possiamo godercelo grazie all’edizione adelphiana, con la curatela di Andrea Ceccherelli e la bella traduzione di Linda Del Sarto. Come scrive Ceccherelli nella puntuale postfazione, “la Szymborska sin qui nota al lettore italiano è in effetti – eccezion fatta per un esiguo numero di poesie giovanili – quella che parte dalla raccolta Appello allo Yeti (1957): una poetessa già perfetta, quasi Atena uscita armata dalla testa di Zeus, e non tanto perché a partire dal 1957 non ci sono svolte nella sua poetica, quanto, soprattutto, perché il carattere della produzione anteriore, non ripubblicata in patria e non tradotta all’estero tranne, appunto, quel poco entrato stabilmente nel canone autoriale, è sempre rimasto ignoto”.
Questo libro scopre un po’ il vaso di Pandora, mettendo in rilievo le geniali esitazioni degli inizi, frenate ex abrupto dall’imperante realismo socialista, che era stato promulgato a quel tempo dall’Unione degli scrittori polacchi. Siamo nel primo tempo della poesia szymborskiana, “aperta, di ricerca, culminante nella silloge d’esordio mancata”; a essa seguiranno “una fase giovanile chiusa, di adesione al realismo socialista, fra il 1949 e il 1954, nella quale vedono la luce due raccolte; e infine una fase matura, a partire dal 1955, quando la poetessa trova una propria cifra stilistica poi consolidata nell’oltre mezzo secolo successivo”. In Canzone nera si fa largo il mostro della guerra con una sintassi franta, scheggiata e soprattutto con un imprinting formale esplicito, per nulla ermetico, come nel caso della commovente I bambini di Varsavia (“Là, nella più fervente delle nostre città, / sprofondano coi visi nel sangue rappreso / corpi bambini”). D’altra parte, emerge anche quella gaiezza – venata di ironia – che è all’origine delle modulazioni e delle clausole forti consuete della Szymborska. Si veda l’incipit di Pace: “Precederà i comunicati la gioiosa sirena dei cuori. / Più veloce della luce è la notizia, / più veloce della notizia la fede”. O l’explicit della terza parte di Viandanze: “È dallo stupore / che sorge il bisogno di parole / e perciò ogni poesia / si chiama Stupore – // Si rannuvola: / – il mio dire / sarà sempre come il pathos. / Troppo poco”. La compagine delle poesie che dànno vita a Canzone nera (sigla che esprime in sé una potente sinestesia) non sono, come si può notare, semplici bozzetti o prove sfrangiate, ma vere e proprie attestazioni di un’aurorale, seppur timida, presa di coscienza della propria vocazione poetica: la strada per il Nobel è ancora lunga, eppure si riesce a intravederne trepidamente la “linea della vita”: “Non ero qui ad aspettare / una poesia / ma / a trovare, afferrare, accogliere. / A vivere”. E alla fine, però, la poesia è arrivata.