Forma intera di poesia

Patrizia Valduga, Poesie erotiche, Einaudi, pp. 284, €16,00 stampa, €8,99 eBook

recensisce ELIO GRASSO

Dice bene Galaverni, tutta la poesia di Patrizia Valduga è accomunata dalla tematica dell’erotismo, sotto la cui insegna s’incontrano pagine dove il barocco e il petrarchismo cinquecentesco subiscono l’onta (si fa per dire) di assalti scollacciati e avventurosi balzi delle parole in turbinii e avventure genitali che però sono ben presenti nella letteratura italiana di ogni tempo, soprattutto là dove gli studi della poetessa si sono compiuti.

Amante della forma chiusa, a tal punto da uniformarvi l’intera vita, umana e poetica, tanto che perfino Giovanni Raboni, suo compagno, vi ha aderito in una stagione importante della sua opera. Questi amalgami senz’altro hanno interessato il pubblico, le hanno portato simpatie e anche qualche critica non propriamente corretta. La fede «senza se e senza ma» di Patrizia contiene tratti di un’oltranza miracolosa, unita a una capacità compositiva ineguagliata dal suo esordio nel 1982 con Medicamenta.

Non soltanto nelle vesti di Ladra di versi, così come lei stessa si definisce nella breve e interessantissima confessione finale posta a epilogo di questo libro. Come grande post-freudiana, e quindi negatrice dell’ispirazione, ci spiega come sia la propria ferita a rendere così fertile la sua scrittura. Una mancanza originaria spinge a colmare vuoti più o meno abissali, e dunque a scrivere anziché dedicarsi ad altro. Avendo bene in mente quel che diceva Raboni sull’argomento. Assodato che le parole amate ritornano sempre, come calchi, coincidenze, rinvii, prestiti e ruberie, si finisce per restituirle più o meno clandestinamente nei propri libri, volontariamente o meno alla fine il ladrocinio salta fuori, tanto meglio che sia la Confessione qualcosa di pungente e definitivo, pragmatico e ecologico. Come in questo caso.

«Personalmente, ho cominciato a usare il rampino quando ho cominciato a scrivere (non a caso la mia prima passione poetica è quella per i barocchi) e ho sempre rubato con “avvedimento e riverenza”». Confessioni di una ladra di versi vale l’intero libro (fermo restando che i testi raccolti sono già noti e pubblicati), per molti motivi, dalla lucida visione di una lunga stagione poetica alla schiettezza con cui si ammette e espone la ferita, cavalcando lungo le epoche, analizzandole senza sosta. Aver meditato sui versi degli altri pone Valduga un gradino più su di molti poeti suoi coetanei, senza contare la maggioranza dei versificatori nostrani.

Fosse soltanto questo il punto, non ci sarebbe niente di nuovo, ma occorre meditare noi stessi su una poesia che dura da quattro decenni senza interruzioni e che trascina fieramente il suo credo nella tradizione lirica italiana, contaminata e capace di contaminare. Spericolata e melodiosa, tra ottave quartine e sonetti, trasgressiva e beffarda, spinge e traina la ferita originaria nel colmo e nei vuoti dell’amore, despota di se stessa, nodo di messaggeri tolti dalla strada e assunti nel suo corpo tanto da restituirceli intatti, e con loro l’intatta Valduga: forma intera di poesia, poesia.

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