Alberto Arbasino. La letteratura è finita

Siamo qui da un’ora, e non all’aeroporto, stretti in un appartamento mentre fra le migliaia di morti causate dal Covid-19 si è ficcata quella smisurata – e gentile – sagoma di Alberto Arbasino. Sagoma come tipo, è chiaro, non come silhouette. Anche se, immagino, non avrebbe disdegnato rappresentarsi in mezzo alle bellezze polimorfe delle mannequin, deliziandosi di “fanciulline scatenate” e “ragazzini pensierosi” – tutti in stile anni Cinquanta, e poi Sessanta, così come accadeva nelle lunghissime estati di quegli anni. E dunque si tratta, oggi, di acchiapparlo al volo, mentre se ne va in chissà quale altro paese dove ci sia poco da scherzare sul senza ma molto da scrivere per altrettanti estimatori. Acchiapparlo perché ci sarebbe ancora bisogno di lui, già mancante da qualche anno, ahimè, almeno nelle pagine dei quotidiani. Vero è che ne avremo ancora per un bel pezzo, prima di esaurire gli sconfinamenti attuati dai suoi numerosissimi libri. Altrettanto vera la cognizione di aver vissuto in decenni che appaiono remotissimi ma presentissimi se letti attraverso la lente oftalmica del nostro, e la capacità d’essere ubiquo in mostre, teatri, concerti, paesi, paesini e nazioni, tramite il potere d’attraversare le dimensioni (letterarie, sociali e costumate e scostumate) spaziali e temporali.

Vedo rappresentanti di uffici stampa che lo ricordano commossi, vedo sommovimenti in chi prima di lui è trapassato e lo ha conosciuto, vedo appartamenti crollare improvvisamente sotto il peso di montagne di libri non più sorrette dalla sua ascendenza. Vorremmo sapere degli ultimi anni silenziosi di AA, se non fosse che di silenzio se n’è avvertito ben poco, per fortuna, grazie soprattutto a Ritratti italiani e Ritratti e immagini, raccolte iper-riflessive dove l’aria svagata del reporter s’unisce all’ispirazione critica con meditati pizzichi di gossip d’originario e consueto stile. Ma attenzione, teniamo bene in vista la ristampa delle Piccole vacanze, 2007, stando attenti agli aggettivi, e ricordando che fu Calvino a pubblicarlo nell’estate del 1957 nei Coralli Einaudi, trattandolo non come esordiente (“ha già ventisette anni!”), e facendo oculata scelta fra tutti i racconti (numerosi) mandatigli da Arbasino. Ma questa è storia nota, così come la storia di Fratelli d’Italia e di tutte le innumerevoli aggiunte compiute al romanzo (romanzo?) dal 1963 al 1993, anno dell’ultima versione. Ricordiamo che dopo il Poussin nella copertina Adelphi (nella “Biblioteca”), Arbasino appare in una geniale fotografia di Giulia Niccolai nella ristampa pubblicata negli “Adelphi”, la stessa della prima edizione Feltrinelli: bellissimo e mobilissimo (forse sorpreso) nello scatto.

A 90 anni ha lasciato il suo paesaggio italiano unendosi alla selva di anime fatte fuori da quello zombie invisibile che definiamo virus e che certamente non ha una bella faccia. Mentre lui fino all’ultimo ha conservato il suo stato di affascinante Flâneur d’umorismo e spirito opposto ai conformismi. In una intervista, senza mezzi termini, affermò che la letteratura è finita. Kaputt. Vero o no che sia, a lui non importava niente, ma a noi che ancora qualcosa importa auguriamoci lunga vita e lunga memoria: Arbasino è ancora lì, nel polimorfismo dell’epoca (tutto il Novecento) con tutto il suo polimorfico racconto.