La Valle de Los Caidos oggi è tornata a chiamarsi Valle de Cuelgamuros, il nome che aveva prima che Francisco Franco decidesse di deturpare questa parte della sierra de Guadarrama con il suo triste mausoleo. Progettato per essere il monumento a cielo aperto del fascismo spagnolo, il caso volle che Josè Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange Española, e Franco e morissero lo stesso giorno, il 20 novembre. Il primo fucilato dai repubblicani nel 1936 e il secondo nel 1975, ma di morte naturale dopo una troppo lunga vita. Entrambi furono solennemente sepolti sotto l’altare della tetra chiesa scavata nel granito sotto un’enorme croce, la più alta d’Europa. Fuori dalla porta della chiesa, in un enorme terrapieno, sono sepolti 40.000 caduti della guerra civile, più o meno a metà tra repubblicani e nazionalisti. L’opera venne costruita a partire dal 1940 per essere finita nel 1958, e fu opera dei prigionieri repubblicani costretti ai lavori forzati per quasi vent’anni. Gli storici non hanno consolidato un dato certo sui morti per la repressione che si scatenò successivamente alla fine della Guerra civile, ma alcune fonti riportano la stima di 200.000 persone. Per popolare la più grande fossa comune della storia europea, le autorità franchiste ordinarono l’esumazione dalle molte fosse comuni disseminate nella Spagna per riunire i morti repubblicani senza nome e deporli ai piedi dei corpi di Franco e de Rivera. Alcune fonti affermano che furono sepolti lì anche i numerosi morti sul lavoro e alcuni fucilati quando non erano più necessari alla costruzione. Nemico giurato di questa macabra e falsa opera di riconciliazione – almeno così era stata fatta passare con ipocrisia dalla propaganda dell’epoca – il Primo Ministro Pedro Sanchez ha ordinato il trasloco delle salme del dittatore e del suo compare, e ha ordinato lo smantellamento di ogni riferimento a quello che era di fatto un luogo di incontro di fascisti e nostalgici del regime.
Salgo a piedi i sei chilometri che conducono al mausoleo fascista dalla strada della Guadarrama, tra pini e pareti di granito solcate dai torrenti, e mi avvicino alla croce alta 150 metri, sempre più grande e impressionante. Poche automobili mi passano a fianco e forse pensano a quanto sia risoluto quel camerata che procede a piedi verso il più ingombrante e brutto residuo del fascismo spagnolo. Mentre percorro la valle bellissima del Cuelgamuros, mi tornano in mente le pagine più toccanti de I girasoli ciechi, l’unico romanzo lasciatoci da Alberto Méndez, e pubblicato in Spagna nel 2004. Méndez, nato nel 1941, aveva vissuto sotto il tallone della dittatura e il suo romanzo affronta i problemi centrali in cui ancora oggi l’intera Spagna si dibatte, quello delle memorie personali, della realtà del conflitto, della lunga e frustrante repressione in un’Europa che avrebbe dovuto debellare anche il loro fascismo dal 1945 e non lo fece, e della difficoltà a costruire una storia pubblica. Se oggi solo qualche coglione sventola sul piazzale la bandiera spagnola o si rizza nel saluto a mano tesa, le polemiche che hanno coinvolto per decenni la Valle de los Caidos sono state momentaneamente risolte spogliandola di ogni riferimento esplicito al fascismo, ma non si è ancora affrontata l’idea di farne un museo a cielo aperto della repressione falangista, cercando di collegare le memorie degli sconfitti con la storia ufficiale e riscrivere radicalmente il significato di quei luoghi ridotti a lager e a campo di lavoro forzato.
Mentre cammino nella solitudine di un cielo terso e settembrino, le vicende e i personaggi de I girasoli ciechi non mi danno tregua e assumono in questo luogo un significato più concreto. Sono quattro storie interdipendenti che raccontano una sconfitta che non è solo dei repubblicani ma dell’intera Spagna, costretta a vivere per decenni in una società malsana animata da odio, vendetta e sospetto. I protagonisti dei racconti sono accumunati dall’essersi trovati a causa della guerra civile in condizioni esistenziali tali da spingerli a rifiutare la vita. Sono un nazionalista che si arrende al nemico nel giorno della resa di Madrid, un giovane padre nascosto nella sierra che si affaccia all’inverno con la moglie morta e un neonato da tenere in vita, un prigioniero in attesa della fucilazione, un intellettuale nascosto in un piccolo vano del suo appartamento. Sono quattro vicende personali in cui sono presenti gli spunti paradossali e surreali cari alla letteratura di lingua spagnola, ma immediatamente calati nel realismo della vicenda storica che il lettore conosce come tragica. Se i protagonisti del romanzo o sono d’invenzione o ripropongono vicende personali realmente accadute, i personaggi che completano la narrazione provengono dalla storia dell’assedio di Madrid, come il colonnello Miguel Eymar, responsabile della fucilazione di migliaia di militari repubblicani e dei loro parenti, e di semplici simpatizzanti, o come Edoardo López, il militante e poi dirigente del Partido Comunista di España, chiuso nella prigione in cui Eymar compie con zelo il suo compito di eliminare fisicamente i nemici della Patria, che nella realtà storica riuscirà a raggiungere l’Unione Sovietica e salvarsi.
Il cimitero dell’Almudena di Madrid è intimamente legato alle vicende della terza storia, intitolata “La lingua dei morti” e ambientata nel 1941, ed è la logica prosecuzione spaziale della narrazione di Méndez. Oggi all’Almudena, poco lontano dalle tombe di Dolores Ibárruri e Francisco Largo Caballero, è sepolto proprio Edoardo López, sulla cui lapide spiccano la falce e il martello che ricorda a tutti i visitatori la sua appartenenza e gli ideali per cui ha combattuto. Ma intorno a lui i colori della repubblica (rosso, giallo e viola), le scritte che richiamano ai partiti operai, i simboli della lotta al fascismo maculano il cimitero fino al muro di mattoni rossi che fu uno dei luoghi delle fucilazioni. Nei cimiteri, dopo un’estrema unzione, i repubblicani veniva uccisi e sotterrati, come raccontano Paco Roca e Rodrigo Terrasa nell’eccezionale storia fumetti intitolata L’abisso dell’oblio (Tunué, 2023). Qualche fiore e la bandiera segnano, spesso senza nessun’altra spiegazione, i luoghi della memoria spagnola. Ma il muro dove avvennero le oltre 3000 fucilazioni a cui si riferisce “La lingua dei morti” è dall’altra parte del cimitero, a fianco dell’entrata principale, dove trovarono la morte anche las trece rosas, le tredici giovanissime donne uccise per un attentato a cui non presero parte.
Quando I girasoli ciechi viene pubblicato nel 2004, la Spagna era già dilaniata in uno scontro politico e culturale sulla dittatura che non si è risolto neppure oggi e vede un partito dell’oblio opporsi con violenza a un partito della memoria. In tutta la nazione sono evidenti i segni delle contraddizioni e delle lotte che sono state portate avanti anche dai partiti istituzionali e durante i governi diretti da José Luis Rodríguez Zapatero e Pedro Sánchez. Tutta la narrativa spagnola, compreso autori del fumetto tra cui spiccano Paco Roca ed Eduard Altarriba, è impegnata nel progetto di tradurre in novel le storie familiari come paradigmi di una lotta che ha coinvolto tutta la popolazione spagnola, dalle famiglie più della classe operaia e contadina fino agli intellettuali, e che per la parte repubblicana hanno rappresentato una sconfitta personale e collettiva, un’umiliazione che si è protratta per anni senza mai una reale riconciliazione. Contrapposizioni aspre che la sinistra italiana, pur nella diversità delle due esperienze, invece, per quanto riguarda il fascismo mussoliniano, ha progressivamente attenuato nel tempo fino a farle scomparire cedendo a un patetico revisionismo storico. È bene leggere il capitolo di Contro l’identità italiana di Christian Raimo (Einaudi, 2019) dedicato al commento sul triste appello di Luciano Violante a favore dei “ragazzi di Salò” per capire come in Spagna, a partire da romanzi come I girasoli ciechi, non si chieda riconciliazione ma giustizia, se non vendetta.
Sarebbe un errore, ci ammonisce Méndez con le sue pagine, considerare la Guerra civile spagnola conclusa nel 1939, anzi il romanzo inizia proprio con la fine del conflitto militare, perché la guerra è proseguita fino alla fine del 1975. Quello che si è modificato nel 1939 è la struttura dei contendenti, per tre anni i nazionalisti avevano combattuto contro l’esercito repubblicano e una parte della popolazione civile, poi il conflitto era continuato contro una parte della popolazione disarmata senza un esercito che la difendesse. Nell’esordio del romanzo, intitolato “Prima sconfitta: 1939”, Méndez descrive l’incredibile resa del capitano Alegría all’armata repubblicana. Un’azione inspiegabile, visto che è l’ultimo giorno di guerra, Madrid è caduta e lo stremato esercito repubblicano si sta consegnando ai suoi aguzzini, ma che è diretta conseguenza di un imperativo morale che lo obbliga a “non voler far parte della vittoria”. Méndez costruisce il personaggio di Alegría affidandogli la razionalità della narrazione, una razionalità che viene mostrata progressivamente e a partire da quella che nella realtà della vicenda come in quella del lettore sembra la scelta di un pazzo. Eppure, pensiero dopo pensiero, Alegría si pone al di sopra dell’ideologia e della propaganda, spiegando al tribunale militare nazionalista che lo sta giudicando per diserzione, che non voleva vincere quella guerra perché non c’erano stati veramente ideali da difendere o valori da proteggere, ma solo la volontà di ammazzare tutti gli avversari. E storicamente è stato così, perché dopo la caduta di Madrid e Barcellona, la guerra è continuata. La vittoria nazionalista non è consistita solo nella conquista del potere, ma nell’eliminazione fisica, psichica e sociale di coloro che si erano riconosciuti nella Seconda Repubblica. Mendéz parla ai lettori con le parole dirette e coraggiose affidate all’eloquio di Alegría dei “soldati vittoriosi come di persone estranee alla vita, assenti da se stessi che si trasformeranno in carne di sconfitti”. Annientati da un vincitore reale che ha sconfitto l’esercito repubblicano e il proprio.
La seconda sconfitta è datata nell’anno terribile della fuga: il 1940. La retirada republicana inizia nel gennaio del 1939 con la caduta di Barcellona, con i profughi diretti verso le città andaluse nella speranza di un imbarco, dove vennero trucidati a migliaia, o verso la Francia, dove oltre 500.000 persone affrontarono il valico dei Pirenei d’inverno. Con la caduta di Madrid, molti si allontanano dalla città diretti verso la sierra a nord, senza una vera speranza di raggiungere il confine ma solo di sfuggire alla repressione. Per coloro che saranno catturati si apre una realtà di fucilazioni, carcere indefinito e torture, per gli altri l’alternativa al suicidio è nascondersi. La sconfitta del 1940 che racconta le vicende di Eulalio Caballos Suárez si svolge sulle montagne delle Asturie. Bloccato in una baita con la moglie e il figlio neonato, attende l’inverno e la morte inevitabile. Lontano dal confine, questo giovanissimo poeta scrive un breve diario in attesa del freddo insopportabile, della fame, dei lupi e dell’inedia. L’espediente del manoscritto ritrovato ha una corrispondenza nel racconto “Diario del partigiano anonimo” di Angelo Del Boca (in Storie della Resistenza, Sellerio, 2013), ambientato in Val Trebbia nell’inverno del 1944, in cui al disgelo primaverile le pagine scritte in attesa della morte nella bufera sono tutto ciò che rimane di un combattente senza nome. Nel racconto di Méndez la parola “sconfitta” è ripetuta più volte. Suárez afferma che è contagiosa e se mai riuscirà ad abbandonare la baita, ovunque il suo odore lo perseguiterà. Lui che si è gettato nel campo di battaglia con un foglio di carta e una matita è incaricato da Méndez di rappresentare quello che lui stesso ha vissuto durante la dittatura, la condanna infinita a una vita di emarginazione.
La terza sconfitta è del 1941 ed è la storia di un inganno. Juan Senra, un giornalista comunista ridotto a “cicatrice d’uomo” dal carcere e dall’attesa di un processo la cui sentenza è scontata, riesce a manipolare i propri accusatori e rimandare la sua condanna a morte, mentre i suoi compagni di prigionia vengono rapidamente condotti al muro delle fucilazioni dell’Almudeva. Ma la consapevolezza della precarietà della sua salvezza e il dolore continuo di vedere i suoi compagni abbandonare il carcere per salire sui camion che li conducono alla morte lo inducono a una ribellione solo morale e ad accettare la sconfitta totale che si concluderà con la sua fucilazione e la sepoltura nella fossa comune.
Il romanzo si conclude con la quarta sconfitta ambientata nel 1942, in una casa borghese del quartiere Salamanca a Madrid. La caccia ai repubblicani non è terminata, e un uomo dato per morto si nasconde per mesi nel suo appartamento. Come nel racconto precedente, che opponeva lo spietato giudice militare al carcerato, qui si contrappongono un intellettuale prigioniero nella propria casa e un prete squallido e fanatico in preda a un’attrazione erotica morbosa. La narrazione interseca la cronaca della famiglia che cerca di far apparire normale la drammatica esistenza reale, mentre chiusa tra le quattro mura vive un’esperienza sociale schizofrenica, la confessione del prete a un suo superiore che rivela la sua frustrazione e la schizofrenia interiore, che vive diviso tra un’incontrollabile pulsione erotica e l’armamentario ideologico e religioso entro cui è stato formato, e la rievocazione della vicenda, anni dopo, da quello che era il bambino osservatore del dramma emotivo e politico che si svolgeva nella sua famiglia chiusa nell’appartamento. L’assurdità della vicenda, surreale e tragica al contempo, cerca di dare corpo non all’eccezionalità ma di quella che è diventata la normalità del nuovo ordine imposto dal falangismo e dalla versione più criminale del cattolicesimo novecentesco. Méndez scrive infatti che “erano i tempi dell’incomprensibilità e nessuno cercava di capire ciò che accadeva”. Il girasole cieco del titolo, evocato alla chiusura della narrazione, è la metafora di coloro che, indipendentemente dalla parte con cui sono schierati, dopo un’immensa tragedia di dolore, di violenza e morte, non potranno che vivere senza più capire dove voltarsi per seguire il sole nel suo cammino.
[foto © Domenico Gallo]


