Vi è mai capitato di raccontare a qualche conoscente dei ceti agiati – quei rari che a volte si mischiano con i figli della classe lavoratrice – di quando vostro padre tornava dal lavoro con il corpo insanguinato dalla “lebbra” del cemento, sfinito dopo una giornata di lavoro a cottimo sulle impalcature dei cantieri edili, o qualcosa di simile che riguardava le fatiche dei vostri genitori? Stanno in silenzio, loro, girano la testa dall’altra parte, o addirittura rivendicano fatiche simili e diverse dei propri genitori. I ricchi non ti lasciano neanche quella misera e verità di avere patito di più, di aver avuto meno soldi, e quel che ne consegue. Alberto Prunetti da una cellula biografica analoga ha scritto un piccolo grande capolavoro. Avete già letto la prima edizione uscita per Agenzia X (2012), o la seconda per le Edizioni Alegre (2015)? Sì o no, in ogni caso correte in libreria ad acquistare la terza edizione, riscritta e ampliata, appena pubblicata, di Amianto. Una storia operaia.
È la storia di Renato (padre dell’autore), della sua vita da metalmeccanico, dell’esposizione all’amianto e ad altre sostanze nocive, e della sua morte. E anche della battaglia della famiglia “per vedere affermato un principio: che Renato è stato esposto all’amianto e che l’amianto aveva a che fare con il tumore polmonare che l’aveva assassinato”, a 57 anni. Ma oltre la durezza della storia, il libro è denso di momenti felici, umorismo, sarcasmo, sagacia operaia e toscana. La scrittura ha un incedere sincopato, tra sciabolate emotive, sapiente intreccio narrativo fatto di aneddoti, coincidenze sconcertanti, veloci ed efficaci analisi politiche, storiche, sociali ed economiche della trasformazione del capitalismo e del lavoro di fabbrica dagli anni ’70 ai ’90. Un impasto che caratterizza la scrittura di Prunetti anche nei libri successivi. Non mi pare una forzatura rintracciare anche elementi “territoriali” (un genius loci materialista) nello spirito tagliente, schietto, “vernacoliere” e anarchico della scrittura: Luciano Bianciardi, Piero Ciampi, Giorgio Caproni, ma anche di alcuni racconti di Abituali (Felici edizioni) e dell’introduzione a Voci possenti e corsare (Agenzia X) di Luca Falorni.
Prunetti nell’ultimo decennio ha scritto tanto, romanzi emozionanti: Amianto, 108 metri, Nel girone dei bestemmiatori (Laterza), Potassa e Il fioraio di Peròn (Stampa alternativa), Pcsp. Piccola ControStoria Popolare (Alegre) e poi Non è un pranzo di gala. Indagine sulla lettaratura working class (Minimum fax), saggio dove dà corpo teorico alla sua ricerca letteraria. “È working class la scrittura che ruota attorno al tema del lavoro, salariato o domestico, e di una accurata, ma non necessariamente realistica, rappresentazione della vita working class, della sua cultura e resistenza al potere”, scritta dall’interno, meglio, da chi non vuole uscire dalla miseria individualmente, “lasciando gli altri indietro, a salvarsi il culo da soli: vogliamo combattere la miseria e lo sfruttamento e ‘sortirne tutti insieme, che è la politica’, contro il privilegio, che è ‘sortirne da soli’”, scrive in quel recente pamphlet.
Qualche malalingua sostiene che Prunetti sia parte di una moda internazionale – la letteratura working class – che non cambierà di un et il mondo. Quasi certo che la malalingua sia un figlio di papà o traditore di classe. Certo, essere figli della working class non assicura di non passare dalla parte del nemico di classe, guardate per esempio che fine ha fatto Luigi Brugnaro, sindaco di Venezia, figlio di Ferruccio, poeta operaio, sindacalista e attivista, che ancor oggi rivendica la cognizione dei suoi “Abiti-lavoro”. A nostro avviso Prunetti sta nel mondo in cui siamo costretti a vivere, con le contraddizioni che tutti viviamo, ma contro questo mondo e per uno almeno migliore. Dentro e contro, risuona il vecchio e corretto ritornello movimentista. Dentro e contro la Grafica Veneta (dove il libro è stato stampato), e Prunetti è stato a fianco delle lotte lavoratori sfruttati – e non solo – da questo colosso della stampa. Dentro e contro una casa editrice passata da voce rivoluzionaria a catena di bar per aperitivi “gentrificati”, ma costretta a riconoscere la sua bravura di scrittore.
Forse mancano le bestemmie in questo romanzo-vita. O meglio, ci sono, ma non sono dette. Si possono udire qua e là se uno ha buon orecchio immaginativo. Bestemmie che in molte regioni italiane, all’interno dei ceti popolari, sono molto diffuse e con cui si sostanzia la sintassi del parlato, ma che – si sa – in letteratura sono usate raramente, solo mettendole in bocca a personaggi coloriti e di certo non come intercalare.
Scrive Valerio Evangelisti nella prefazione: “Prunetti calibra benissimo il contagocce delle emozioni. La sua bravura di scrittore si vede, la si tocca grazie a una lingua vivissima […] una costruzione stilistica raffinata e tuttavia avvertita dal lettore come spontanea”; e Wu Ming 1 su Giap: “se uno legge Amianto e non gli arriva la botta, vuol dire che ha messo il cuore sotto le scarpe”. Infine, “La scrittura di Prunetti è scabra, il suo fraseggio veloce e secco. Non indugia in patetismi o malinconie, non coltiva i dettagli narrativi, predilige l’essenzialità. Dietro le frasi si percepisce una rabbia molto forte. Mai risentimento, bensì orgoglio delle proprie origini raccontate con devozione figliale”, così Marco Belpoliti recensiva la seconda edizione di Amianto. Tutto giusto e vero, tranne che a proposito del risentimento. Anzi – e qui metteteci una di quelle imprecazioni non letterarie di cui si parlava sopra – il risentimento è un primo passo verso la lotta contro le ingiustizie. E, per le lotte ma anche per la scrittura e l’immaginazione, il sano odio di classe è energia esplosiva.