Alberto Rollo / Padri e figli

Alberto Rollo, Il miglior tempo, Einaudi, pp. 416, euro 19,50 stampa, euro 9,99 epub

Per anni ci siamo fermati a riflettere e a discutere intorno al tema della “morte del padre” nella nostra società. Abbiamo preso atto dello sviluppo delle varianti tematiche freudiane, junghiane e, infine lacaniane. Abbiamo capito come la morte del padre ha a che vedere con la fine della legge, la fine della norma che lascia gli esseri umani liberi, ma soli, nel mondo in cui vivono. Il padre che viene ucciso è essenzialmente il padre del vecchio testamento che legifera ma non è capace di amore. Contro questa figura si sono scatenatati i movimenti giovanili degli anni Sessanta e Settanta che mal sopportavano la figura patriarcale del padre, la stanca memoria di guerre e disastri e l’ipocrita imposizione di norme comportamentali del tutto anacronistiche in materia di relazioni affettive, sessualità, identità di genere, ecc.

Ma cosa è rimasto dopo questa guerra ormai vinta? Come ci si trova quando anche i movimenti di protesta e di liberazione hanno visto scemare la loro forza propulsiva e quel “nemico” è ormai in ritirata? A questa domanda non vi è certo una risposta semplice e univoca. Più di tanti saggi però può venirci incontro la letteratura, la narrativa. Alberto Rollo è consulente per la narrativa di Mondadori, critico letterario, collabora con diverse testate giornalistiche. Nella stesura de Il miglior tempo sembra quasi volersi misurare direttamente con il tema della morte del padre e, possiamo aggiungere, della morte o della mancanza dei maestri.

Rollo non ha alcun bisogno di chiamare in causa la coppia padre-figlio per sviluppare le problematiche nella sua narrazione. Egli invece si accontenta di mettere a confronto due generazioni. La prima rappresentata da un signore in età avanzata, il dr. Romagnoli, pediatra di professione (casualità?) che si è ritirato in casa ad ascoltare Schumann, grande compositore e musicista romantico (!) dopo la perdita della moglie (Edipo ci dice qualcosa). La seconda è impersonificata dal giovane ventenne Filippo “Cantor” Castelli che vive nella perenne irrequietezza che lo porta a lasciare con leggerezza la fidanzata Anna, incinta di suo figlio e fortemente innamorata. La stessa leggerezza che spinge Cantor a cambiare lavori (pur svolti sempre con perizia) nel giro di pochi mesi costringendosi a vivere quasi “senza passato” e in una condizione di allarme perenne.

Cantor, come viene nominato più spesso nel libro, ci induce una malinconica simpatia che però, come dice il risvolto di copertina, non ci impedisce di vedere che egli “tutto abbandona, per combattere da solo, romanicamente solo con un candore che oscilla tra la santità dell’idiota e il narcisismo eroico del sacrificio”. Ecco allora il primo frutto avvelenato della morte del padre: l’individualismo narcisistico. L’arroganza di potersi misurare con tutto quello che gli accade senza bisogno di alcuna prudenza, rende Cantor facile preda di ogni suggestione, dalla politica populista ai rapporti con le persone. Cantor non ha passato, dicevamo. O, credendo di non averne è impossibilitato dal “ricevere” –qualsiasi cosa questo verbo voglia dire: ricevere affetto, ricevere amore, ricevere informazioni su come condurre certe esperienze, anche professionali. Cantor, in definitiva, sembra non essere in grado di imparare. Egli non è felice, nonostante la sua presunta “libertà”. E allora domanda, cerca risposte. Per prima cosa le cerca proprio nel dr. Romagnoli, suo vecchio pediatra, ma poi in tanti altri: amici e amori occasionali, perfino in un prete. Ma non ne ricava utilità.

Il dr. Romagnoli, che pure è abituato a prendersi cura di ragazzi di fronte alle difficoltà, sembra capace solo di rannicchiarsi tra le note del suo amatissimo Schumann. Non rinuncia però a guardare il giovane ventenne anche se con un po’ di distanza e qualche cenno di sorpresa. Ma non lo lascia mai solo. Il giovane non è capace di apprendere, l’anziano – che potrebbe fargli da maestro – e non è capace di dare. Ma la storia non si risolve in questa specie di stallo emotivo e culturale perché nella ricerca di un destino, per quanto sofferta e difficile, si realizzerà il “miglior tempo” per il giovane Cantor e per il suo pediatra-maestro.