Analfabetismo allo specchio. Ruth Rendell, La morte non sa leggere

A Judgment in Stone, questo il titolo originale di La Morte non sa leggere, romanzo capitale di Ruth Rendell pubblicato nel Regno Unito nel 1977, tradotto per Mondadori nel 1987, oggi finito nell’oblio del “fuori catalogo” in compagnia di molte opere della scrittrice non afferenti al ciclo dell’Ispettore Wexford.

Ruth Rendell, la morte non sa leggere, Mondadori 1987
Ruth Rendell, la morte non sa leggere, Mondadori 1987

Per il lettore italiano si tratta di una perdita: i libri in cui Rendell si libera dell’ombra del corpulento ispettore sono senz’altro i più ambigui nel senso fertile della parola; quelli in cui il genere crime si rivela puro pretesto (merceologico) configurandosi il delitto non molla propulsiva, bensì esito della narrazione.

Ciò che soprattutto si apprezza in questi titoli è la precisione dello scandaglio autoriale, orientato a registrare la lenta crescita dei germi patogeni nel loro brodo di coltura: la trama psichica e ambientale che irretisce vittime e carnefici in un disegno costretto ad assumere la fisionomia tragica (ma stilisticamente depurata) di un fato. Attitudine che la scrittrice inglese condivideva con il conterraneo Graham Greene e l’americana Patricia Highsmith, come Ruth figli minori (ma più legittimi di molti epigoni) del vasto grembo dostoevskiano.

Padrona di una morale laica e meno tormentata rispetto a Greene, dotata di uno sguardo più compassionevole di quello Highsmith, Rendell mostra di avere orecchio particolarmente sensibile verso i sommovimenti prodotti dalle trasformazioni sociali (e dalle resistenze che incontrano) e dai travasi umani che ne sono corollario in una proliferazione di metamorfosi monche. Suggestioni queste rifuggite da Greene (più incline a registrare i fremiti emozionali della storia intesa come geopolitica) e pennellate da Highsmith con mano sicura benché mai troppo significante, vista la predisposizione a indagare ossessioni e vizi di ambito perlopiù borghese.

È l’attenzione ai sopracitati contesti (e agli animali umani che vi si adattano) a fare di Rendell una delle più riuscite interpreti di quella tensione carsica verso il naturalismo che si riflette tutt’oggi in tante narrazioni minori del Regno Unito trovando nel cinema, nella letteratura per ragazzi e in certe serie televisive la propria forma più compiuta (e non di rado misconosciuta).

Detto questo, non è da credere che la narrativa di Rendell abbia alcunché di sociologico, ma è indubbio che, privata dell’attitudine “politica” a leggere i propri personaggi a partire dai contesti socioeconomici in cui si generano, a poco varrebbero intrecci puliti e psicologie credibili. Ciò vale tanto più in un romanzo come A Judgment in Stone, dove il “giudizio inciso nella pietra” rappresenta tanto l’orrore di essere giudicati quanto la predisposizione a giudicare senza appello; sentimenti generici se non fossero anche, e soprattutto, espressione di un attrito economico, sociale e culturale.

Depositaria di questi sentimenti è Eunice Parchman, la protagonista del romanzo. Rendell la introduce fin dall’incipit per quello che è: un’analfabeta e un’assassina. “Eunice Parchman sterminò la famiglia Coverdale perché non sapeva leggere, perché non sapeva scrivere”.

Guardinga, scialba, scaltra, Eunice piomba sulla famiglia Coverdale (in qualità di cameriera) come uno scarafaggio su un fiore perfetto: paradossalmente è proprio il suo aspetto a rassicurare Jacqueline Coverdale. Borghese dalle fattezze irreprensibili, signora di una dimora storica nel Suffolk in cui gioca a fare la dama del castello (“noi riceviamo molto”), Mrs Coverdale trova confortevole l’opacità di Eunice, scambia la sua selvatica diffidenza per riservatezza, i gesti distanzianti (“sì, signora”, “sì signore”) per rispetto, il basso profilo per consapevolezza del proprio ruolo subalterno. Ne apprezza l’aspetto mesto che si conviene a una servente.

Eunice non fa molto per piacere, ma esegue il lavoro a regola d’arte, guidata dall’unico desiderio di chiudersi in camera, a fine giornata, per guardare una tv di seconda mano che i Coverdale le hanno graziosamente ceduto. Soggiogata dalla violenza che tracima dallo schermo, non ha alcuna intimità con i propri sentimenti, coincide solo con i propri istinti e pregiudizi: i Coverdale sono sommamente odiosi, non hanno a cuore la pulizia e, soprattutto, sono circondati da libri.

Dietro i libri si trincera il giovane e spigoloso Gil; dei libri si fa scudo l’idealista sorellastra di lui, Melinda. I libri donano lustro alla biblioteca di Mister George e si aprono come bouquet tra le mani curate di Jacqueline. Eunice nutre verso ogni forma di scrittura orrore e ripugnanza: un banale appunto, diretto a lei, può diventare prova urlante del suo deficit. Cresciuta nella mestizia dei sobborghi proletari londinesi, dove la sua mancanza non faceva grande differenza, grazie alla sua scaltrezza animale è sempre riuscita a dissimulare il proprio analfabetismo facendosi aiutare, occasionalmente e in caso di necessità, dalla propria inclinazione al ricatto. Ma adesso, nella splendida casa di campagna, ogni lettera scritta appare una minaccia: è come navigare tra gli scogli. Eunice ha bisogno di un nocchiero. Lo troverà, fatalmente, in Joan Smith, bottegaia locale, invasata mistica, impregnata di risentimento e ferocia. Esistono micce che attendono da sempre il proprio fuoco.

Rendell è maestra nel dosare gli eventi giustapponendo via via le facce di un solido in cui l’analfabetismo di Eunice si specchia nella cecità psicologica dei Coverdale: il narcisismo di Jacqueline, l’autismo di Gil, le buone intenzioni di Melinda, la pavidità di George che pur intuendo qualcosa di “sbagliato” preferisce non scontentare la consorte. L’intero romanzo si gioca così sul doppio registro dell’analfabetismo inteso come incapacità di decifrare testi: l’analfabetismo materiale di Eunice, quello mentale (e sociale) dei Coverdale, sprovvisti di curiosità umana ed empatia. Fatta eccezione per la giovane Melinda: lei sì è predisposta all’empatia, ma traviata da un paternalismo classista (disgraziati e subalterni sono innocenti per definizione e attendono solo che borghesi illuminati offrano una mano salvifica). Unica figura dotata di “strumenti di lettura” Melinda non si accorge della fallacia della sua traduzione. Eunice non è una “povera” servente, ansiosa di farsi aiutare: è grumo di istinti e paure. Deprivata di ogni facoltà espressiva, “sente” con intensità cieca, ma non avverte: non può avvertire la compassione sincera di Melinda, solo la minaccia che rappresenta. Sarà la compassione di una a perdere tutti.

Portato sugli schermi da Claude Chabrol, nel 1995, con il titolo La cérémonie, Il buio nella mente in italiano (imbarazzante costume patrio di “vivacizzare” i titoli originali), il romanzo di Rendell vive una seconda giovinezza e un’interpretazione infedele. Pur seguendo il canovaccio del romanzo la pellicola di Chabrol si concentra principalmente sulla lenta marcia di avvicinamento tra Sandrine Bonnaire e Isabelle Huppert che interpretano, rispettivamente, l’analfabeta e l’invasata. La pur eccellente Bonnaire non riesce, però, a restituire il ventaglio di sentimenti torpidi (le astuzie da faina, lo sgomento della preda\carnefice, l’affezione cieca nei confronti di Joan Smith) che caratterizzano Eunice Parchman; per farne esperienza (indiretta) bisogna calarsi tra le pagine.

Rendell non ricorre ad alcuna risorsa retorica per “giustificare” Eunice: non cade nella trappola paternalistica di Melinda, mantiene, come si è detto, uno sguardo quasi naturalista; in questa prospettiva Eunice si può solo descrivere a partire da un vissuto in cui la deprivazione espressiva (dovuta a una semplice dislessia) si rassoda nella deprivazione sensoriale e valoriale del suo universo d’origine.

Tantomeno, Rendell “giustifica” la cecità dei Coverdale, con la loro “passione” per la cultura, la bellezza, le lettere, la musica che si configurano strumenti di un’immaginazione del tutto autoreferenziale: cognitivamente inservibile nel con-prendere l’altro da sé, se non nella versione di Melinda che lo riconduce a “stereotipo del bisogno”.

Nel 1977, quando Rendell scrisse il romanzo, la presunta frizione tra “consapevoli” e “incolti” che intasa oggi il dibattito pubblico e virtuale non era sul tappeto. Interessava a Rendell studiare un essere umano incapace di dare forma alle proprie emozioni e disegno ai propri pensieri, immergendolo in un contesto che, al contrario, riteneva di padroneggiare gli uni e gli altri. 

Da scrittrice di calibro si guardava bene dal trarre conclusioni o chiosare moniti e ciò benché il periodo storico fosse ancora caldo, e viva la speranza (figlia del secolo) che la cultura potesse tradursi in consapevolezza esistenziale e politica. Letta in questo questo senso la cultura ostentata dalla famiglia Coverdale potrebbe descrivere la mistificazione conservatrice che fa della cultura a trincea di privilegio. Potrebbe.

Comunque la pensasse Rendell (è un po’ tardi per chiederglielo) A Judgment in Stone continua a interrogarci, tanto più in una fase storica in cui il termine cultura viene impiegato ogni piè sospinto quale generica difesa contro la barbarie: i libri afferrati come scudi di virtù presunta, l’arte vagheggiata quale empireo per spiriti sensibili, in una curiosa replica (ma sbandierata da sinistra) del sapere trincea degli eletti. Epoca, la nostra, in cui si stampano migliaia di parole per “spiegare” quelli che non le hanno (onde poi additarli come bestie nella vita concreta o nei flame che ammorbano la vita nostra) in un profluvio di didascalismo rifritto e di scene allestite tra quinte usurate. Miliardi di caratteri stampati con la presunzione di immaginare l’inimmaginabile, per credersi di comprenderlo e, comprendendolo, sentirsi migliori. O se non altro padroni di un senso. Adesso come allora, sperare che dare un senso a Eunice sia il nostro stesso senso. Ma Eunice Parchman un senso non ce l’ha.