Un mondo pieno di personaggi accoglie il lettore nelle prime pagine di Grande nave che affonda, romanzo d’esordio di Andrea Cappuccini. Una sorta di narrazione corale che sapientemente l’autore gestisce su due piani: quello della dimensione sociologica di un quartiere della periferia romana; quello dei sogni e delle frustrazioni, dei rancori e dei sentimenti nobili che le persone vivono in un contesto che nel tempo li disorienta sempre di più.
Il romanzo non ha inizio e non ha fine, allontanandosi dalla struttura tradizionale che si basa su uno sviluppo lineare e sul bisogno che le storie si “aprano” e si “chiudano” per essere meglio comprese. L’unico “evento” che viene proposto al lettore è l’attesa per l’arrivo, anzi il ritorno, di un ragazzo che sta per uscire dalla prigione. Il quartiere di Torricella è luogo accogliente oppure è una trappola? Una prigione da cui è quasi impossibile uscire? Se lo domandano i giovani abitanti che hanno perso i pur fragili punti di riferimento di quando erano bambini, ma soprattutto hanno perso i riferimenti che gli indicavano i loro padri e i loro nonni abitanti di un passato che ora non esiste più.
Le vite raccontate nel libro sono diverse e ognuna di esse ha una relazione tutta particolare con il quartiere: per stare al passo con le categorie concettuali a cui siamo abituati nel presente, potremmo dire che la realtà intorno a Torricella è fluida. Di conseguenza, anche Torricella lo è, visto che dove vi erano prati a distesa ora vi sono altri quartieri e mille cantieri. Le strade stesse per l’accesso al centro di Roma sono modificate.
Camillo, uno dei protagonisti, in passato poteva lamentarsi e dire di “vivere ai bordi di Roma e non essere davvero Roma”, ma oggi proprio no. Con tutti gli edifici sorti intorno a Torricella. Già, Roma: la città desiderata e odiata, la città antropomorfizzata che aggredisce quello che le sta intorno e le persone che vi abitano. Questo sembra essere un tratto comune presente negli ultimi libri dei giovani scrittori italiani che raccontano del rapporto tra centro e periferia in una realtà urbana molto grande come quella romana, di gran lunga superiore a Milano, Napoli, Torino e Palermo. È un tema antico che risale a Pasolini e anche prima, un tema che ha preso le forme più diverse ma che solo di rado ha trovato proposte e soluzioni. Ogni libro è una fotografia della realtà, una serie di fotografie della realtà che quasi mai prospettano soluzioni. Forse non è possibile.
Gli abitanti della borgata assomigliano al gatto Berto, espulso senza che nessuno se ne rendesse conto per molto tempo, e poi riammesso, magro e malconcio, nell’unico luogo che sentiva come propria casa. Se si fanno alcune libere associazioni, quello che si può vedere in trasparenza nelle vite raccontate da Cappuccini, è che la dinamica sogno-frustrazione ormai non fa più parte solo della classe di proletari e sottoproletari delle periferie, ma riguarda anche le famiglie borghesi che perdono il lavoro e hanno difficoltà a trovare il denaro per far studiare i figli. Tutto ciò alla luce dei cambiamenti attuali che sempre più caratterizzano la nostra società in cui un gruppo di ricchi fa il bello e il cattivo tempo, senza controllo, mentre gli altri si impoveriscono a vantaggio dei primi. D’altronde da quelle parti la vita quotidiana è intessuta di prostituzione e cocaina, dalle periferie ai centri storici.
Un’ultima considerazione riguarda la lingua del romanzo. Non è dialetto e non è italiano colto, non è una citazione e non è un prodotto della fantasia. Cappuccini in verità è riuscito a fare quello che più volte ha dichiarato: usare il linguaggio parlato. Un dialetto romanesco ormai degradato mescolato a un dialetto antico e “puro” e all’italiano corrente: ne deriva un effetto gradevole e insolitamente familiare, come si stesse ascoltando un racconto della tradizione orale.