Anselm Jappe / Cemento, o della mercificazione

Anselm Jappe, Cemento arma di costruzione di massa, tr. Carlo Milani, Elèuthera, pp. 197, euro 17,00 stampa, euro 7,99 epub

La critica delle forme architettoniche e della gestione dello spazio urbano in quanto strumenti del capitalismo e causa di ingiustizia sociale non è una novità. Meno si è riflettuto sull’uso dei materiali, ed è quello che ha fatto Anselm Jappe, un filosofo tedesco che insegna Estetica all’Accademia di Belle Arti di Roma, evidenziando lo stretto collegamento tra il materiale di gran lunga prevalente dell’architettura moderna e contemporanea – il cemento armato – e la logica di produzione e di consumo capitalista (il titolo originario del libro è “Cemento – arma di costruzione di massa del capitalismo”). È il materiale in sé, prima ancora che i modi e le forme del costruire, ad essere intrinsecamente capitalista. Il materiale cemento è un agente attivo nella mercificazione della costruzione; il filosofo lo definisce il “lato concreto dell’astrazione capitalista”, giocando sul termine concrete, traduzione inglese di cemento. E, come ogni merce, deve durare poco.

La storia del cemento moderno inizia con il brevetto del “cemento Portland” (1824), un conglomerato basato sul clinker, una miscela di calcare (80%) e di argilla (20%); sin dalla metà del secolo il cemento viene ‘armato’, ovvero messo in opera con una armatura interna, invisibile, in metallo. Una pietra artificiale dal costo molto basso, la cui produzione e messa in opera non necessitava di manodopere specializzate. Il cemento inizialmente fu usato negli edifici pubblici, nell’ingegneria civile e nelle abitazioni per le classi popolari; solo in ultimo in quelle per le classi borghesi, dove dapprima fu impiegato soltanto nelle parti non a vista. La debole resistenza borghese al cemento si spiega con il fatto che esso era considerato un materiale povero, il cui aspetto non si confaceva al culto del passato e del bello; fu una resistenza apparente, perché in Italia i primi edifici interamente in cemento armato furono in stile Liberty, come il palazzo Bellia a Torino in via Pietro Micca (1898).

È del cemento una capacità di ingannare, mistificare, offuscare un po’ le menti. È un materiale liquido che può solidificare in qualsiasi forma e anche come significante è stato cangiante, nel corso del tempo, e via via riconosciuto come proletario, democratico, avanguardista (si adatta perfettamente a quanto scritto da Antonio Sant’Elia nel Manifesto dell’architettura futurista, 1914: “i caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città”).

È diventato il materiale da costruzione più usato a partire dal secondo dopoguerra. L’autore, in modo “molto poco oggettivo ed equilibrato”, come scrive nel prologo, non ama per nulla l’architettura moderna. La sua critica è rivolta soprattutto a Le Corbusier, maestro osannato dai più, che Jappe valuta soprattutto alla luce delle collaborazioni con i movimenti fascisti francesi e delle rovine in cemento che ha lasciato dietro di sé, come la città indiana modernista di Chandigarth, costruita negli anni ’50 del XX secolo su suo progetto e i cui edifici mostrano oggi segni di avanzata decadenza. Ma l’architetto franco-svizzero è criticabile, e ha una responsabilità sociale, soprattutto per la logica di conteggio meccanico dello spazio in relazione all’uomo; per aver misurato i bisogni e le capacità umane, arrivando a stimare in 14 mq la superficie abitativa sufficiente per una persona. Singoli suoi edifici possono essere pietre miliari dell’architettura moderna ma si tratta di costruzioni destinate alle élite, mentre la gente comune avrebbe dovuto abitare le città radiose, che Jappe definisce carcerarie: complessi urbanistici dove ogni spazio è organizzato e definito, le aree pubbliche quasi assenti, gli edifici composti da cubi che ripropongono a oltranza le unità di abitazione della grandezza ritenuta conforme; tra gli obiettivi, la vicinanza casa-luogo di lavoro, l’igiene e la purificazione degli spazi. La sua architettura è stata definita, dal saggista Roger-Pol Droit, “un fascismo in cemento armato”. Di questa concezione urbanistica e di vita collettiva moderna, il cemento è il principale indicatore; il suo utilizzo ha determinato la sparizione di massa delle architetture tradizionali (e di tutto il savoir-faire ad esse collegato), sostituite da un materiale omogeneo privo di forma che non si adatta ai singoli contesti ma uniforma il paesaggio.

Gli aspetti negativi del cemento sono innumerevoli: la nocività per la salute, le devastazioni ambientali per l’apertura di cave di sabbia e ghiaia (in genere le sabbie del deserto non sono utilizzabili, tanto che Dubai importa sabbia dall’Australia), il consumo di energia e l’emissione di CO2 durante la produzione (in particolare per il raggiungimento delle temperature elevate durante la cottura del klinker), la sterilità e il soffocamento dei suoli cementificati, un problema ben noto in Italia e che ha un ruolo importante negli effetti devastanti di alluvioni e smottamenti; le carenze termiche e i problemi di umidità delle strutture in cemento, che rendono necessari cappotti termini e climatizzazione (ovvero la produzione artificiale di aria respirabile).

Eppure la reputazione del cemento è ancora al di là dall’essere scalfita. A differenza della plastica, ad esempio, in pochi pensano di poterne o doverne fare a meno; come se le devastazioni del cemento fossero meno evidenti delle gigantesche isole di plastica alla deriva negli oceani. Ma l’aspetto più pericoloso e inquietante del cemento, perché sottovalutato e non messo a fuoco, è la sua obsolescenza programmata, il fatto cioè che ha una durata di vita estremamente limitata in confronto a tutti i materiali tradizionali.

Jappe ha concepito il libro dopo il crollo del ponte Morandi del 14 agosto del 2018. Al di là delle responsabilità, pesantissime, dei gestori di Autostrade per l’Italia, che non hanno effettuato la manutenzione sorvolando sui segnali allarmanti di usura e cedimenti, il crollo – per una struttura in cemento inaugurata nel 1967 – è stato in qualche modo fisiologico. Le strutture in cemento armato non sono costruite per durare; la durata sicura è stimata di 50 anni al massimo. Le fessurazioni che si formano nel cemento permettono agli agenti di corrodere il metallo; gli interventi di manutenzione sono complessi e costosi. Questa è la vera natura del cemento: un materiale che ha una durata di vita inferiore a quello della vita media di una persona. Nient’affatto, quindi, un materiale forte, duro, duraturo; non quello che pensavano i tanti che, nel dopoguerra, nelle città e ancora di più nelle campagne, hanno distrutto le case tradizionali, quelle costruite alla vecchia maniera, di cui avevano vergogna, per ricostruirle in cemento, con l’orgoglio di essere diventati moderni. Un retaggio di quella vergogna, forse, è ancora in noi.

È curioso perché, pur circondati da oggetti che usiamo per pochi anni e poi buttiamo e sostituiamo (elettrodomestici, vestiti, automobili, …), abbiamo del patrimonio immobile un’idea ancora associata alla durata prolungata. La casa è una parte consistente dell’eredità, è il grosso di quello che lasciamo ai figli; eppure non vediamo quanto il cemento e la logica capitalistica di costruzione ci ingannano, non capiamo che questo genere di edifici non può avere la funzione simbolica che gli attribuiamo (il mantenimento della memoria familiare e collettiva).

L’inganno è crudele e lapalissiano in modo quasi ridicolo; pensiamo ad esempio al cemento-amianto Eternit, che – al di là dei tristissimi fatti accaduti e per le recenti vicende giudiziarie – è indicativo per il nome scelto in quella corsa alla mistificazione della realtà e della durata, a ostentare una presunta eternità. Il limitato orizzonte temporale del cemento rende ancora più immediati alcuni problemi di ricaduta del materiale: che fare degli scarti (è riciclabile per lo più solo in modo cosiddetto peggiorativo, ad esempio nelle massicciate stradali, non in nuove costruzioni) e come convivere con la bruttezza delle rovine in cemento (che non tornano alla natura, diversamente da quelle in materiali tradizionali).

Come evolveranno i nostri paesaggi cementificati? Se – come auspicavano i futuristi – edifici e città verranno ricostruiti a ogni generazione, saremo in grado di reggere i costi ambientali, sociali, estetici di una tale esaltazione dell’effimero? Jappe non propone soluzioni alternative, se non un andare contro. Ricorda che, durante la fase più intensa della rivoluzione francese, fu stabilito di smantellare i castelli feudali e tutte le torri, in quanto simbolo di un potere oppressivo. “E se oggi” – scrive – “si decidesse di lanciare un’azione simile contro i ben più opprimenti grattacieli creati dalla tirannia della merce?” Utopia? Sì, un’utopia della durata, delle cose che sanno durare – senza le quali non sappiamo ancora immaginare un modo per vivere insieme felici.