Antonio Forza, Rino Rumiati / “Scienze cognitive e processo penale: un auspicabile incontro”

Antonio Forza, Rino Rumiati, L’errore invisibile. Dalle indagini alla sentenza, il Mulino, pp. 286, euro 20,00 stampa

Ci sono dei libri che tutti dovrebbero leggere. Uno di questi è L’errore invisibile. Dalle indagini alla sentenza, opera di due rinomati studiosi: Antonio Forza, avvocato cassazionista, docente di psicologia del giudizio e delle decisioni nonché di neuropsicologia forense, e Rino Rumiati, ordinario di psicologia generale. Preceduto da una prefazione di Giovanni Canzio, già Presidente della Suprema Corte di Cassazione, il volume, composto da un’introduzione, otto densi capitoli e una corposa bibliografia, si apre con una scorrevole ricognizione del processo penale italiano e, partendo dal dato di fatto che nell’ultimo trentennio in Italia sono stati registrati oltre trentamila casi di ingiusta detenzione, pone subito all’attenzione del lettore una cruciale domanda: da dove derivano questi errori? Per rispondere, Forza e Rumiati esaminano la complicata materia delle cause che conducono all’errore giudiziario, nella loro valutazione quasi sempre frutto di vizi investigativi determinatisi durante la raccolta delle prove, la cui erronea valutazione, il travisamento, mantengono la loro forza condizionante nella fase processuale. Concentrandosi sulla psicologia degli inquirenti, gli autori ribaltano così la corrente dottrina processuale penalistica, che di rado si sofferma sul soggettivismo degli operatori del processo. “Il dibattito sull’errore giudiziario – notano – è approdato solo di recente su un terreno più propriamente psicologico”, e non sono molti gli studiosi che “hanno cercato di ricondurre ai limiti e ai condizionamenti della psiche umana le cause di questi errori”.

Sulla scorta delle più recenti evidenze delle scienze comportamentali, delle neuroscienze cognitive, della psicologia sociale, i capitoli successivi si soffermano poi sui meccanismi che presiedono alla registrazione e organizzazione dei dati nel nostro cervello, alla concettualizzazione della realtà fenomenica, ai sistemi intuitivo e razionale che governano (il primo infinitamente più del secondo) i processi mentali. È forse la parte più affascinante del saggio, con l’analisi delle “trappole cognitive” dell’Homo sapiens, l’esposizione dei concetti di bias (tendenze sistematiche della mente fondate su percezioni errate) e delle euristiche (strategie cognitive che tutti assumiamo inconsapevolmente), le scorciatoie del pensiero e la ricorrente e inconsapevole distorsione delle informazioni che assumiamo, la fallibilità della memoria e il fenomeno dei falsi ricordi, il ruolo e il peso delle intuizioni e delle emozioni nei processi decisionali, le illusioni percettive (“distorsioni della comprensione che avvengono attraverso i sensi o i pensieri che difficilmente riusciamo a modificare”), la sovrastima delle proprie abilità ed altro ancora: in generale, tutti quei fenomeni mentali, quegli automatismi psicologici che governano l’essere umano e determinano effetti – spesso drammatici – in ogni ambito sociale, com’è nel caso della giustizia penale. Concetti spiegati e presentati con l’ausilio di esempi sperimentali e il puntuale richiamo agli studi più aggiornati delle scienze cognitive.

Un capitolo è inoltre dedicato alla psicologia degli inquirenti, con le insidie del “senso comune” e della “psicologia ingenua”, del “ragionamento causale” e della “correlazione illusoria”. Gli appassionati dell’arte del racconto e di semiologia troveranno poi di grande interesse la parte dedicata alla “narratività come modalità di pensiero”, con le varie teorie evolutive sull’abilità prettamente umana nello storytelling, poiché “l’investigazione altro non è che una verifica di ipotesi”, un “processo comunicativo” in cui essa può trovare conferma o confutazione. L’ultimo capitolo analizza i sistemi di intelligenza artificiale e gli strumenti di indagine predittiva che sempre più negli ultimi anni vengono impiegati nel corso delle indagini dalle forze di polizia, un utile aiuto ma anche un pericoloso strumento nei processi decisionali degli inquirenti, al quale bisogna porre dei limiti con opportuni interventi normativi, per adattare le indagini e le fasi dibattimentali “alle nuove tecnologie nel rispetto dei principi di trasparenza, della presunzione di non colpevolezza nonché del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio”.

In definitiva, “i sistemi giuridici si fondano sul presupposto che la ragione e l’intelligenza umana rappresentino un sistema unitario, così come vuole il senso comune, e che il pensiero e la coscienza umana funzionino secondo un unico livello di consapevolezza”: niente di più distante dalla realtà. L’evidenza della ricerca scientifica, dopo decenni di esperimenti, attesta che siamo preda di pregiudizi, ragioniamo per schemi e per stereotipi, e che “la mente degli esseri umani è intimamente e naturalmente esposta a distorsioni” – e qui un appassionato di filosofia ricorderebbe gli idola, di Bacone. La nostra specie è incapace di prendere decisioni perfettamente e compiutamente razionali. Ci avvaliamo di una “razionalità limitata”, “siamo privi della consapevolezza dell’influenza dei bias cognitivi che si annidano nei processi mentali attraverso i quali si sviluppa la decisione”, in quanto generati sotto il livello di coscienza. Come tutti, gli inquirenti sono individui condizionati dagli errori sistematici e dalle irrazionalità umane, dunque gli autori auspicano “un rinnovato progetto culturale di ricostruzione dei modelli di formazione dei giuristi e, in special modo, delle figure professionali dell’investigatore e dell’inquirente” con particolare riguardo alle tecniche di debiasing (sviluppo della consapevolezza e depurazione dei bias cognitivi) ed educazione al pensiero critico.

Siamo insomma davanti a un libro che affronta temi di estrema rilevanza, i cui approdi esondano l’ambito delle scienze forensi: ridurre il più possibile l’errore giudiziario è un obiettivo che ogni società civile e democratica deve perseguire, ma le conoscenze di base dei meccanismi e dei processi che presiedono al funzionamento della mente dovrebbero essere patrimonio di ciascuno, non da ultimo perché ci aiuterebbero nelle interazioni sociali e a capire noi stessi. Da questa lettura si esce certo arricchiti, ma anche con un malcelato senso di inquietudine, augurandosi di non incappare mai nelle maglie della giustizia.