Augusto De Luca / Il Corvo torna a volare sulla palude di Palermo

Augusto De Luca, La liquidazione. Cronache dell’Antimafia (dal 1° settembre 1991 al 31 dicembre 1992), Terre Sommerse, pp. 706, euro 22,00 stampa

Questo secondo volume di Cronache dell’Antimafia di Augusto De Luca, intitolato La Liquidazione, è ancora più esplosivo del primo (qui la recensione). Nel primo volume avevamo assistito allo scontro all’ultimo sangue tra vari poteri dello Stato, al tentativo quasi disperato dopo l’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa (3 Settembre 1982) di segnare una svolta nella lotta alla mafia, facendo nascere appena tre giorni dopo (6 Settembre) quella struttura dotata dei superpoteri e degli uomini la cui attivazione il Generale e Prefetto di Palermo aveva richiesto invano per mesi, cioè l’Alto Commissariato per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa.

Augusto De Luca, integerrimo servitore dello Stato, nella sua qualità di capo di Gabinetto della struttura commissariale, ha vissuto dall’interno queste drammatiche vicende che hanno scosso dalle fondamenta i palazzi del potere e le ha riportate giorno per giorno in una sorta di diario di bordo. La sua testimonianza sullo smantellamento progressivo, un pezzo alla volta, della struttura commissariale, è uno strumento di fondamentale importanza per comprendere quel periodo storico così travagliato.

A più di sei anni di distanza dall’uccisione di Dalla Chiesa, dopo la stagione dei veleni del 1988-89, il Governo italiano decise di voler cominciare a fare sul serio contro la criminalità organizzata e nominò il giudice della Procura di Roma, Domenico Sica, alto Commissario per la lotta alla mafia. Quest’ultimo accettò a condizione che gli fossero concessi poteri speciali e un corpo di agenti segreti speciali. Eppure, anche Sica, denominato Nembo Sic per i suoi eclatanti successi nel contrasto alla criminalità, conobbe più l’amarezza delle polemiche feroci che la gioia dei successi, che pure conseguì. Al termine del primo triennio d’incarico, il governo decise di sostituire Sica con il prefetto di Napoli Angelo Finocchiaro, e cominciò lo smantellamento dell’Alto Commissariato.

Nelle puntate precedenti, abbiamo assistito allo scontro – alla fine degli anni Ottanta – tra Sica e i poteri delle forze dell’Ordine e della Magistratura. Sica chiese ed ottenne quei superpoteri che erano stati negati a Dalla Chiesa, sarebbe a dire la possibilità di accedere ai fascicoli delle indagini più riservate, di poter svolgere indagini completamente svincolate dalle inchieste della Magistratura, la possibilità di intercettare a suo piacimento, e così via. Questi superpoteri hanno creato fin da subito una serie di invidie e di gelosie, una serie di reazioni risentite, anche da parte della Commissione Parlamentare Antimafia guidata da autorevoli esponenti del PCI, Gerardo Chiaromonte e Luciano Violante, e ne scaturirono una campagna di stampa e un’indagine che coinvolse lo stesso Sica, accusato di aver acquisito prove in modo illegale nell’ambito della ben nota vicenda del Corvo di Palermo. Quelle polemiche feroci furono il prodotto tossico di una delle estati più torride e più brutte (estate 1989) nella storia del Palazzo dei Veleni, il Tribunale di Palermo, detto anche (copyright De Luca) lo Zoo di Palermo, che produceva mostri invece di animali, da osservare più o meno in cattività.

Con questo secondo volume approdiamo a un’epoca segnata dalla contrapposizione totale tra mafia e Stato, con l’ala stragista di Totò Riina, Nitto Santapaola e Giovanni Brusca, dei fratelli Graviano e di Matteo Messina Denaro, che prende il sopravvento, e dà inizio a una sequenza devastante di delitti che comincia con l’omicidio eccellente di Salvo Lima (Marzo 1992) a Mondello. Lima era il plenipotenziario della corrente andreottiana in Sicilia, e non era riuscito a condizionare l’esito del maxiprocesso alla cupola mafiosa, fortemente voluto da Falcone e dagli altri coraggiosi magistrati del pool Antimafia, anch’esso smantellato pezzo per pezzo a colpi di maldicenze e di veleni. Per questo fu ucciso. Il commento di De Luca fa intuire la drammaticità di quei giorni in cui lo Stato appare sotto assedio, e l’Alto Commissariato la barriera più avanzata di questo assedio senza quartiere. Seguono a distanza di poche settimane, le clamorose dimissioni di Francesco Cossiga da Presidente della Repubblica (26 Aprile), e gli spettacolari attentati che costarono la vita a Falcone (23 Maggio) e a Borsellino (19 Luglio). A De Luca non sfuggì, già all’epoca, il significato politico di quelle due stragi, il ben preciso intento di sbarrare la strada a Giulio Andreotti nella sua corsa al Quirinale, l’intento di salvaguardare un nuovo sistema di potere che si stava affermando. De Luca intuì fin da subito che le stragi del ’92-’93 servivano a porre una pietra tombale sul vecchio sistema dei partiti della Prima Repubblica, scosso proprio in quei mesi fin nelle fondamenta dall’inchiesta di “Mani Pulite”, e a favorire la nascita di un nuovo assetto politico, con nuovi referenti politici per le cosche.

Durante i funerali di Falcone Rosaria Schifani, la vedova di Vito Schifani, agente di scorta di Falcone, prende la parola e si rivolge agli assassini: “A nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato….”. Riascoltiamolo, quel discorso. In quella voce stanca e disillusa che ripete a fatica la parola “Stato”, c’è tutta la disperazione e la rassegnazione di un intero territorio, la Sicilia, che ha vissuto per decenni sulla propria pelle l’assenza dello Stato, oppure, ancora peggio, l’alleanza strategica tra lo Stato e la mafia in funzione del mantenimento dell’ordine pubblico, dalla strage di Portella della Ginestra (1947) in poi. Rosaria Schifani prosegue: “Uomini della Mafia, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono… Solo dovete mettervi in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare, di cambiare.” Un discorso che si dovrebbe ascoltare e far ascoltare agli studenti, e non solo in Sicilia. Anche quest’ultima ripetizione è significativa, esprime la determinazione di una donna che non vuole arrendersi anche se la mafia le ha ammazzato il marito facendo saltare in aria un intero tratto di autostrada, di una Sicilia che anela da secoli a un cambiamento, eppure rimane nelle viscere sempre uguale a se stessa.

Non ci dimentichiamo che in quel terribile biennio, 1991-92, e poi nel 1993-94, l’Italia ha rischiato grosso. La mafia stragista è arrivata al punto di compiere degli attentati “in continente”, a Roma, Firenze, Milano, attentati che rappresentavano un ben preciso messaggio politico alle istituzioni della Repubblica. Non ci dimentichiamo che si arrivò, la notte del 27-28 luglio 1993, a un passo dal colpo di stato, quando il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, alzò la cornetta del telefono per capire cosa stava succedendo, non sentì alcun segnale e capì che qualcuno aveva completamente isolato la centralina telefonica del Quirinale. Non ci dimentichiamo che per la fine di gennaio del 1994 la mafia aveva organizzato un attentato allo stadio Olimpico di Roma con una Lancia Thema imbottita di esplosivo, un attentato che, se fosse stato portato a termine, avrebbe cambiato la storia d’Italia, con decine e decine di morti tra i Carabinieri…. Perché l’attentato all’Olimpico fallì? Solo per il malfunzionamento di un telecomando? Ancora oggi ci si interroga sull’intreccio tra politica e mafia che portò all’arresto dei fratelli Graviano e alla nascita di un nuovo soggetto politico.

Ma torniamo a quei tragici eventi dell’estate del 1992. Falcone e Borsellino sono morti e il Corvo torna a spiccare il volo in una nuova stagione dei veleni. Nuovi corvi volteggiano al di sopra del Palazzo di Giustizia di Palermo. Il Palazzo dei veleni diventa, nelle cronache di quei mesi, la “palude di Palermo”. Ma nel frattempo altri corvi si alzano in volo sulla vicenda siciliana, attirati dall’odore dei cadaveri. A un certo punto l’ideologo della Lega, Gianfranco Miglio, suggerisce: lo Stato abbandoni la Sicilia. In una Sicilia sovrana e indipendente si scatenerebbe un regolamento di conti interno tra la delinquenza mafiosa e gli stessi siciliani. “Ma sì – commenta con amarezza De Luca – lasciamo la Sicilia alla mafia, che se la vedano i siciliani tra di loro”. Siamo ancora lontani dalla strategia delle Leghe meridionali dei primi anni Novanta e dall’idea di diventare il maggiore sponsor del ponte sullo Stretto, che secondo i leghisti della prima ora avrebbe avvicinato un po’ troppo questa Sicilia al continente, contribuendo al suo degrado. Eppure avrebbe dovuto essere chiaro a tutti che la mafia aveva varcato lo stretto di Messina già da parecchi decenni, senza aver bisogno del ponte, espandendosi nel Nord Italia e in tutta Europa, ma le menti sopraffine della Lega non se ne erano accorte. Oppure…