Azar Nafisi / “Finché possiamo immaginare, siamo liberi”

Azar Nafisi, Leggere pericolosamente, tr. di Anna Rusconi, Adelphi, pp. 222, euro 20,00 stampa, euro 11,99 epub

Dopo il libro che l’ha resa famosa, Leggere Lolita a Teheran, Azar Nafisi torna al tema della lettura. E della letteratura, come dice il sottotitolo “Il potere sovversivo della letteratura in tempi difficili”. E in effetti questo libro è stato scritto tra il 2019 e il 2021, anni difficili per tutti, ma particolarmente drammatici in Iran. Leggere pericolosamente è composto di cinque lettere che Nafisi scrive al padre, scomparso ormai da tempo. Sono lettere che continuano un dialogo che si intuisce sia sempre stato denso, forte ma pacato. Si parla di attualità e di letteratura, di quello che succede e di quello che si può fare, di quello che sono i libri e del perché ci sono indispensabili. Sono lettere di affetto e di omaggio a un padre importante (è stato sindaco di Teheran, incarcerato subito dopo la salita al potere dell’ayatollah Khomeini nel 1979) che non è mai stato di ingombro, e il cui lascito è tanto immateriale quanto prezioso e potente.

In queste lettere Nafisi esprime la sua preoccupazione per l’America in cui ormai vive stabilmente da tempo, in cui vivono anche i suoi figli e stanno per nascere i suoi nipoti. Un’America che si sta allontanando dalla democrazia e in cui i contrasti, le differenze, si stanno esasperando. Un’America che reagisce confusamente alla pandemia di Covid, nonostante sia il paese più ricco del mondo e le sue università, i suoi centri di ricerca, i suoi scienziati siano i migliori. Un’America che ha scelto di farsi guidare da Donald Trump: che nel mettere in pratica il suo slogan “Make America Great again” falsifica quello che ha fatto davvero grande quel Paese. Ovvero l’accoglienza, la libertà, l’etica meritocratica del lavoro, l’idea che tutti, indipendentemente dalle loro origini, potessero avere successo e ricchezza. Quest’America, un po’ persa e perduta, Nafisi racconta al padre, con un’angoscia che spesso la lascia insonne e che forse solo il fiume che scorre lento sotto casa può calmare.

Ma ci sono anche moltissimi ricordi belli e teneri e gioiosi, e tantissimi libri. Come la maggior parte degli scrittori, anche per Nafisi i libri sono il principio e la fine, sono nutrimento e sostegno. Nei momenti più difficili, ci dice, sono stati proprio questi a restarle accanto e a darle la forza di resistere e continuare. Da Toni Morrison a David Grossman (che scrive “Finché possiamo immaginare, siamo liberi”), da Salman Rushdie e Margaret Atwood, da James Baldwin a Elias Koury, sono in molti gli autori raccontati nel libro. Romanzi spesso riletti, e capiti a una profondità a cui la prima lettura non poteva arrivare. Oppure scoperte tardive, e per questo ancora più preziose. Libri indagati, scavati a fondo, di cui Nafisi si è impossessata parola dopo parola, nello sforzo di non perdere nulla di quello che gli autori hanno cercato di suggerire e di proporre.

Ma perché leggere sarebbe pericoloso? Perché in questo atto apparentemente passivo e solitario, noi ci confrontiamo con noi stessi. E con i sentimenti che proviamo. Diamo un nome e una definizione, delle sfumature, dei gradi di intensità, a quei sentimenti. Li possiamo studiare e analizzare, e il nostro comportamento non sarà più una risposta istintiva e immediata ma qualcosa di pensato e soppesato. La rabbia e l’odio che si impossessano di uomini e donne in un regime basato sull’oppressione, e anche di tutte le vittime delle ingiustizie nei regimi democratici, la rabbia e l’odio che sembrano forme di identità costruite contro qualcun altro, sono in realtà una forma del dolore. Il dolore si attraversa, si può accettare, non genera necessariamente la violenza. Con la conoscenza di sé, del proprio sé più profondo e universale, si può restare sensibili, buoni, generosi anche mentre si attraversa la tragedia. La letteratura, cioè i libri veri, autentici, quelli in cui gli scrittori esplorano e ci fanno conoscere la dimensione unica e universale dell’animo, la letteratura ci insegna che nessun regime, nessun uomo e nessuna donna ci possono privare dell’immaginazione. Dice Nafisi: «in un mondo reso opaco dalla conflittualità e dalle guerre, dove i nemici possono arrivare a occupare la nostra mente e il nostro cuore più di quanto non riescano a fare gli amici, dove la menzogna si maschera da verità, abbiamo più che mai bisogno dei chiari occhi dell’immaginazione per scorgere la realtà dietro e oltre l’apparenza».

Quindi, anche se a volte ci sembra inutile, continuiamo a leggere. Innanzitutto perché se ci sono i lettori ci possono essere anche gli scrittori. E poi perché i libri nutrono l’immaginazione, che potrebbe servirci moltissimo se dovessero cambiare le condizioni in cui viviamo. Pericoli ce ne sono, e molti. Tendenze inquietanti anche.

Voglio aggiungere che Nafisi, in queste lettere al padre, dà molto spazio anche alla poesia. La cui immediatezza ci può raggiungere come un lampo. Cito ancora: «A rendere La porta del sole di una bellezza straziante è la sua poeticità intrinseca. C’è un punto in cui la voce narrante, quella del dottor Khalìl Ayyùb, che nel 1995 vive in un campo profughi di Shatìla alla periferia di Beirut, descrive la poesia come “parole con cui guariamo la nostra vergogna, la nostra tristezza, il nostro struggimento. Una protezione. Il poeta ci avvolge nelle sue parole perché la nostra anima non vada in pezzi. La poesia si oppone alla morte: è la malattia e la cura, l’anima nuda e i suoi vestiti. Adesso sento freddo, perciò mi rifugio nella poesia, mi ci nascondo con la testa e le chiedo di proteggermi”».