Carofiglio: la macchia incerta sull’esistenza certa

Gianrico Carofiglio, La disciplina di Penelope, Mondadori, pp. 185, euro 16,50 stampa, euro 9,99 epub

L’ombra del sospetto può macchiare in modo più tenue una coscienza rispetto all’accusa? Cos’è un nome se non uno, nessuno e centomila identità che vi si attribuiscono? Tutto ciò che non può essere smentito – fino a prova contraria (scripta manent) – ha il turpe peso di una verità consolidata. Quasi che il dubbio, talvolta, risulti più insidioso e perverso del fatto certo. È quello che accade a Mario Rossi (sì è davvero il suo nome): l’onta di un’indagine a carico per la sussistenza di elementi inquietanti ai suoi danni, nell’ambito di un procedimento giudiziario – il misterioso assassinio della moglie – ormai archiviato per l’impossibilità di procedere in mancanza di elementi sufficienti a instaurare un processo. Non è una vera accusa, ma un marchio indelebile e irrimediabile dal quale non ha neppure alcuna possibilità di difendersi.

La vitale esigenza di cancellare dal suo nome la macchia incerta che ne mina l’esistenza certa si scontra con la burocrazia giudiziaria, mentre la sua vita sembra rovinata per sempre. Di qui, la richiesta di aiuto a un’investigatrice privata, che dovrà raccogliere in gran segreto elementi sufficienti a far riaprire il caso, così da sottrarre l’identità di Rossi all’onta del difetto. Infrequente, ma possibile. Non è la prassi giudiziaria, ma un ottimo spunto narrativo che permette a Carofiglio di addentrarsi, ancora una volta, nelle trame del noir.

Non è più il celebre avvocato Guerrieri ma, Penelope Spada, un nuovo personaggio, donna dal passato difficile e un carattere scontroso che fa da schermo a intime fragilità nascondendo alcol, sigarette, allenamenti sportivi intensivi, uomini, frivole frequentazioni sentimentali e risvegli in letti sconosciuti. In massima evidenza l’autore sollecita nel lettore una riflessione profonda: la coscienza di un’importante e doverosa distinzione, in ambito processuale, fra giudizio tecnico e giudizio morale. Il primo è il doloroso dovere di un magistrato, consistente nell’esercizio regolamentare della pena adeguata rispetto a un reato riconosciuto dallo stato con leggi scritte. Il secondo, di natura personale ed etica, esula dalle competenze di un giudice, e al contrario, come nel caso di Mario Rossi, si può rivelare arbitrario e rischioso, poiché può compromettere le indagini costituendo un fattore di offuscamento dell’intelligenza e minandone l’efficacia. Dunque, la conclusione a cui si giunge è la paradossale necessità di una realtà in cui i giudici si astengano dall’esprimere giudizi morali che non siano strettamente tecnici.  Il caso Mario Rossi rivela, infatti, quanto la scarsa professionalità di un magistrato possa ingiustamente rovinare un’intera esistenza umana per superficialità ed incompetenza.

Con grande perizia Carofiglio denuncia alcune falle del sistema giudiziario, ammaliando i lettori con la sua abilità di scrittore-magistrato che sottopone all’attenzione dei fan questioni morali spinose, di grande impatto psicologico. Ancora una volta, come nella saga dell’avvocato Guerrieri, al centro della trama c’è lo sdoppiamento uomo/magistrato, già presente in Ragionevoli dubbi (pubblicato da Sellerio nel 2006) antica e sempre attuale perla, con una variante al femminile che implica nuove attenzioni al dettaglio: “il maschile è la categoria predefinita, il criterio fondamentale di lettura del mondo. Dunque, la causa fondamentale della cattiva comprensione del mondo. Si tratti di cose quotidiane, si tratti di cose della vita quotidiana”.