Dracula: il Signore della notte nella città della luce

Antonio Caronia e Domenico Gallo [Ripreso da Alphaville. Temi e luoghi dell’immaginario di genere, a. I n. 1, luglio 1998, Phoenix]

Che il prodotto culturale sia una merce, una merce particolare fin che si vuole, ma pur sempre una merce, è noto dai tempi di John Milton e del dottor Johnson. Il fatto che la maggior parte dei critici e degli storici della cultura considerino questo un fatto imbarazzante, e tendano perciò a sorvolare elegantemente sulla questione, non ne diminuisce l’importanza. In un numero della rivista Calibano (una pubblicazione che una ventina d’anni fa ebbe una certa importanza in Italia per gli studi sulla letteratura popolare), questa dinamica venne articolata con particolare chiarezza, e ne vennero esplorate le conseguenze sul piano produttivo e distributivo (1).

L’industria culturale, spiegava l’anonimo autore del saggio, deve produrre abbastanza rapidamente sempre nuovi testi (merci), imperfetti e rozzi se valutati con i canoni della letteratura alta, testi che il consumatore del nuovo “ceto medio” possa consumare facilmente e velocemente. Questo ciclo produttivo facilita il fruitore, generalizza il godimento attraverso prodotti semplici, comprensibili senza troppo sforzo. Come accade per tutte le merci, anche il libro o la rivista devono deperire rapidamente, e per non intasare il sistema produttivo (e i magazzini), ciò implica che nuove merci sostituiscano continuamente le vecchie, merci che devono possedere qualcosa di nuovo, ma contemporaneamente devono conservare un rapporto con le precedenti, devono in qualche modo esserne la logica conseguenza.

Nei testi il lettore (come lo spettatore) deve ritrovare qualcosa che già conosce, qualcosa che ha già apprezzato, ma al tempo stesso deve assistere a qualcosa che sia nuovo per lui: ripetizione e innovazione, come e più che nelle altre produzioni, caratterizzano i prodotti dell’industria culturale. È questo connubio ossimorico che costituisce l’ossatura del rapporto tra le opere sul piano diacronico. Ma un’altra antinomia fa luce sui meccanismi della letteratura di massa, questa volta sul piano sincronico: quella tra codice e violazione. Nel giallo il meccanismo è trasparente: c’è un ordine sociale (garantito dalla legislazione civile e penale), e una successiva rottura di questo ordine (il delitto); lo sviluppo della narrazione porterà di solito, tramite l’azione del detective, al ristabilimento dell’ordine iniziale.

Anche il punto di partenza della fantascienza (almeno nell’atto della lettura) è il mondo empirico del lettore: ma qui la violazione non avviene tanto a livello della trama, ma più esplicitamente nella costruzione dell’universo narrativo, perché quest’ultimo differisce dal mondo del lettore per l’alterazione di alcune proposizioni del codice (che in questo caso è la scienza, più in generale connessa all’assetto organizzativo della società), o per l’inserimento di una nuova proposizione (2). Le regole dell’universo fittizio coincidono quindi con il corpus scientifico convenzionale (quello dell’universo del lettore) integrato da una parte inventata, ma lo sviluppo narrativo che ne segue si mantiene fedele, nella maggior parte dei casi, a una corretta epistemologia (3). Nel racconto horror, infine (come in quello fantasy), la violazione è assoluta, non ci sono limiti al recupero di figure e conoscenze arcane, e il codice violato è lo stesso assetto razionale della realtà. Non vogliamo addentrarci in una discussione dettagliata sulle possibili estetiche dell’horror; ai fini del nostro discorso ci interessa sottolineare solo una delle caratteristiche di questo genere letterario. L’horror mette sempre in scena uno scontro tra epoche. Il protagonista delle narrazioni horror vive la sua vicenda ai limiti di un’interfaccia tra presente e passato: egli possiede i mezzi tecnologici della propria epoca, agisce secondo le metodologie correnti, ragiona secondo i canoni della modernità, ma per affrontare e sconfiggere il pericolo che lo minaccia deve usare invece i metodi tipici di epoche precedenti. Questa caratteristica, per ragioni diverse da quelle della fantascienza, rende il genere horror particolarmente adatto (più di quanto di solito non si creda) a trattare il discorso del mutamento sociale e immaginativo. Cercheremo adesso sinteticamente di vedere come ciò accada nella figura del vampiro, una delle più longeve e fortunate della letteratura e del cinema fantastico. Un esame di questa figura, e delle sue principali incarnazioni, alla luce delle considerazioni che abbiamo esposto, può aiutarci a capire le ragioni di un successo così duraturo.

Il vampiro, qualunque fosse il suo nome, è esistito da sempre nelle leggende e nella tradizione popolare. Quando, fra il Settecento e l’Ottocento, letterati come Hoffman, Polidori, Le Fanu, Gautier e Gogol si impadroniscono di questo personaggio, ne danno una versione “colta”, che corre parallela a quella orale senza che le due si influenzino poi molto. Le opere di questi autori sono rivolte a un pubblico acculturato, non certo a quello popolare, analfabeta o consumatore di formati narrativi diversi da quello del libro. A questo pubblico è rivolta invece, per esempio, la serie di Varney il Vampiro (4), pubblicata dal 1845 in Gran Bretagna, e diffusa a basso costo in fascicoli settimanali. Questi due filoni, e i loro relativi pubblici, camminano dunque relativamente separati fino al 1897, l’anno in cui esce Dracula di Bram Stoker (5). Questo romanzo è uno snodo importantissimo per capire la mutazione subita in quel torno di tempo dalla letteratura fantastica, il suo abbandono della letteratura alta per trasmigrare verso le forme contemporanee della cultura di massa. La figura del vampiro subisce così una trasformazione molto significativa, passando dalle mani di autori che appartengono al mondo dell’aristocrazia a un autore, come Stoker, già pienamente inserito nelle nuove professioni dell’industria culturale. I romantici o postromantici Hoffman, Shelley, Byron, Polidori, Le Fanu, Gautier, Gogol, sono portatori di una visione del mondo che in qualche modo fa ancora resistenza alla modernità, credono orgogliosamente di poter stabilire un rapporto diretto con la natura: una figura come quella del vampiro segnala quindi, per loro, una contraddizione non tanto sul piano dei rapporti materiali, della civiltà in senso lato, ma su quello delle idee, della cultura. La situazione è stata recentemente molto ben descritta in un romanzo come Lamia (6) di Tim Powers, in cui i vampiri quasi ectoplasmatici che tengono in loro potere Shelley, Byron e Keats sono in realtà i padroni dell’immaginario, i veri ispiratori dell’opera dei poeti inglesi. Nessuna visione del genere possiamo aspettarci da Stoker, mediocre autore “midcult” dalla scrittura sciatta, ma efficacissimo nel comunicare la nuova visione del mondo tipica della borghesia di un paese sviluppato (un positivismo semplificato e rozzo, in ritardo di cinquant’anni rispetto a quello della filosofia ufficiale). Nelle sue mani il vampiro si presenta quindi non come espressione di un conflitto individuale, legato al concetto e alla pratica della creazione artistica, ma come un forte indicatore dei nuovi conflitti della società e dell’immaginario. Colpisce subito, nel romanzo di Stoker, una sorta di spontanea “multimedialità”, che, letta a posteriori, sembra un inconsapevole presagio dei diversi media attraverso i quali passerà via via la figura del vampiro (narrativa, fumetti, cinema, musica, radio, teatro). Dracula è infatti costituito da una miscellanea dei più diversi formati letterari, e addirittura dei più diversi supporti informativi, esistenti in quell’epoca. Abbiamo il diario stenografico, le lettere, le registrazioni, i telegrammi, estratti di quotidiani, un libro di bordo, i promemoria, fino al diario fonografico del Dottor Seward inciso dal Dottor Van Helsing. La vicenda, e quindi l’immagine dello stesso protagonista, Dracula, viene ricostruita dal lettore attraverso la sovrapposizione dei rapporti e delle descrizioni dei vari personaggi, ognuna con lo stile tipico, non solo delle singole persone, ma dei diversi media utilizzati. Tutti esprimono il loro punto di vista sui fatti, tranne il protagonista. Ma che il protagonista sia il vampiro non ci sono dubbi: lo dimostrano la continuità della sua presenza nel testo (i suoi antagonisti Harker e Van Helsing sono assenti per lunghi periodi), la ricchezza delle interazioni, il progressivo svelamento delle sue possibilità e delle sue finalità. Non deve quindi stupire che dopo questo esordio narrativo Dracula venga disperso, quasi polverizzato attraverso tutti i media disponibili, e, oggetto di continue riscritture, abbandoni nel corso del Novecento un’identità forte, perdendo ogni caratteristica unificante che non sia il semplice dato di uno status intermedio tra la vita e la morte e l’assunzione del sangue come nutrimento. Non esiste un punto di vista totalizzante, c’è piuttosto una ricostruzione collettiva. Il Dracula di Stoker guarda già al cinema; se in letteratura, infatti, il punto di vista è un effetto creato dal testo, il cinema invece, avvalendosi del montaggio e della posizione della macchina da presa, pone lo spettatore in una condizione di vantaggio cognitivo rispetto al personaggio. E così è per il lettore di questo romanzo, che è in grado di accedere a documenti, resoconti e note che sono invece assolutamente inaccessibili ai personaggi (7). Se all’inizio questo ventaglio di risorse comunicative sembra creare attorno alla vicenda un’atmosfera di veridicità, in seguito proprio la mancanza di un centro narrativo forte finisce col minare l’effetto di verità: un po’ come per il cittadino Kane, in Quarto Potere di Orson Welles, la cui vicenda, ricostruita sulla base di molteplici racconti tutti opinabili, risulta sfocata e ambigua. E forse non è un caso che Orson Welles abbia dimostrato interesse per Dracula, realizzandone una riduzione radiofonica. Proprio il punto di vista di Dracula, il grande
assente del romanzo di Stoker, viene invece ricostruito da Fred Saberhagen in Vampiro (8), un testo che ha fornito più di uno spunto a Francis Ford Coppola per il suo Bram Stoker’s Dracula. Dopo un secolo, Dracula torna in Gran Bretagna per spiegare ai discendenti di Jonathan e Mina Harker che quanto è stato scritto nel romanzo di Stoker è tutto un equivoco, e per proporre la sua versione dei fatti. Il suo resoconto, in analogia con quello dei passati avversari, viene ritrovato inciso su nastro magnetico. Le spiegazioni che la letteratura di massa dà di se stessa non sono mai definitive. Dracula, Signore del Tempo (9), di Brian Aldiss, riscrive la storia di Dracula legandola alla storia di Bram Stoker, non come autore, ma come persona reale. Autore e personaggio coesistono così nella stessa trama, interagiscono tra loro, e addirittura utilizzano ai fini narrativi questa loro esperienza intrecciata. La vicenda di Dracula, romanzo scritto da Stoker, diventa la novelization di una storia vera vissuta da Stoker e suggeritagli da un Jonathan Harker che addirittura viene dal futuro. Al di là della resa narrativa, che è mediocre e a volte noiosa, il romanzo è utilissimo per comprendere i meccanismi attuali della letteratura popolare. Innanzitutto è prescritta la conoscenza del corpus testuale precedente (non importa se letterario, cinematografico o di altro tipo), il che porta in primo piano la dimensione diacronica (cioè la coppia ripetizione/innovazione), mentre la funzione sincronica si limita a un insieme di puntatori che rimandano alle funzioni diacroniche. È come se fossimo finiti in un ipertesto: se Vampiro di Saberhagen era una sorta di specchio deformante del Dracula di Stoker, Dracula, signore del tempo di Aldiss presenta una simmetria sferica, dove i rimandi non hanno alcuna direzione privilegiata. Queste, come altre pratiche di riscrittura all’interno dell’industria culturale, ci riportano al problema affrontato da critici della cultura di massa come Simmel (10), o Adorno e Horkheimer (11), quello della scomparsa dei criteri di verità nei sistemi culturali legati alla merce. Se (per dirla sempre con Calibano) “la forma si impone a prescindere da ogni verifica dei suoi contenuti” (12), ciò non vuol dire che la cultura di massa sia il regno del falso, ma piuttosto che vero e falso si mescolano, e che quindi non ha più senso il volerli distinguere, che il discorso sulla realtà avviene contemporaneamente a essa, e non dopo, perché in qualche modo è il discorso che produce la realtà, e non viceversa. Da questo punto di vista Dracula presenta più di una analogia con i supereroi dei fumetti: come loro ha poteri fuori dell’ordinario (una sorta, appunto, di “potere costitutivo” del reale), come loro assume spesso un’identità segreta. Come loro non ha ormai più bisogno di essere presentato al lettore, che conosce già la sua esistenza ed è ben disposto a leggere o a visionare nuove avventure e nuove trame in cui egli sia protagonista: come accade in quel racconto di Donald Barthelme, in cui l’autore non deve preoccuparsi di sostenere l’entrata in scena di Batman e Robin con qualche espediente letterario, non deve descriverli né giustificare la loro presenza al lettore. Essi semplicemente esistono, e l’autore non fa altro che scrivere un nuovo capitolo di un’avventura che non ha fine. Il lavoro di Barthelme (13), che utilizza protagonisti e ambienti attinti direttamente dalla cultura di massa, è un ottimo esempio per introdurci al mondo dell’immaginario contemporaneo, un monso in cui i personaggi seriali esistono e hanno successo perché fanno risparmiare tempo al lettore e allo spettatore. Ciò che muta in questo processo è il rapporto tra quantità di informazioni e il tempo necessario a recepirle: il valore di questo rapporto è andato aumentando di epoca in epoca, e certamente crescerà in futuro, in seguito all’introduzione di sistemi di comunicazione multimediali. Perché proprio oggi, alla fine del Ventesimo secolo, tante riscritture e variazioni sulla figura di Dracula, un personaggio che sembrerebbe anacronistico già al momento della sua nascita (o rinascita) col romanzo di Stoker? Non sarà che questa figura della premodernità abbia in realtà dei solidi e inaspettati legami con l’innovazione tecnologica? In effetti la fine dell’Ottocento è un avvicendarsi di successi tecnologici e di nuove applicazioni nel campo delle comunicazioni. Inizia a diffondersi in maniera accelerata la fruizione dei manufatti creati grazie allo sviluppo scientifico e tecnologico anche tra settori piccolo borghesi e proletari, che sino a quel momento erano invece stati esclusi dalle novità. Un nuovo immaginario sembra intaccare l’egemonia di quello religioso e magico. È una nuova e strisciante rivoluzione industriale, descritta efficacemente, per esempio, nel racconto “La città della luce” di Lewis Shiner (14), a metà fra cyberpunk e steampunk. Nel corso dell’esposizione internazionale di Chicago del 1893, lo scienziato ceco Tesla, sfruttando le proprietà dei campi magnetici e la composizione elettrica dell’atmosfera, rende il cielo perennemente luminescente, abolendo la distinzione fra giorno e notte. Questa luce perenne, che sostanzialmente è l’incantesimo di un nuovo tipo di stregone, rimanda per analogia alla riduzione dello spazio d’azione dell’interpretazione mitica e religiosa della realtà. Non che il terrore riverente o la paura impotente siano scomparsi, solo si rivolgono ad altri elementi. Per la prima volta gli elementi dell’immaginario diventano materiali, costituiscono avvenimenti che potrebbero accadere: ciò che oggi ci spaventa di notte, domani potrebbe verificarsi alla luce del giorno. Non esistono più due territori contigui, uno diurno e uno notturno, rigorosamente atemporali, ma due tempi, il presente e il futuro. E se tradizionalmente il territorio del male poteva essere aggirato (evitando di attraversare i luoghi maledetti, o indulgendo in comportamenti a rischio), il futuro invece non dà scampo: esso incombe necessariamente. Ciò che l’uomo oggi tocca, usa, modifica, ciò che inizia a far parte della sua vita materiale quotidiana, cela in futuro un nuovo mostro in agguato. Tutto questo era già implicito nel romanzo di Stoker, ed è proprio il suo Dracula che incarna questo cambiamento epocale. Il film di Coppola per certi aspetti è estremamente aderente al romanzo, ma ne esplicita e ne forza il contenuto in ragione delle nuove condizioni dell’immaginario: in esso assistiamo infatti alla morte del vecchio mostro, il vampiro, e alla nascita di un nuovo mostro, lo scienziato. Entrambi i testi elaborano lo stesso materiale, ma nel romanzo di Stoker la tensione è implicita, è un processo che i personaggi vivono giorno per giorno, ne sono turbati senza riuscire a capirla sino in fondo. Nel Dracula di Coppola, invece, essa diviene un’intenzione esplicita, quasi saggistica, una volontà culturale; l’interpretazione entra nel testo, diventa narrativa. Come in un nastro di Moebius, o in un ipertesto, quello che si perde è la freccia temporale. Questa tecnica è abbastanza diffusa nella cultura di massa. La riscrittura si pone come sottolineatura delle caratteristiche del testo originale, ma non opera in maniera didattica, come fa la critica. La riscrittura ricostruisce la realtà (il testo) aggiungendo nuova realtà (nuovi testi), una realtà che ha però funzione interpretativa: la riscrittura, come il sequel apocrifo, pretende di gettare nuova luce sul testo originale, addirittura di piegarlo a una nuova logica. L’assunzione implicita in un’operazione del genere è che il testo originale dissimuli fra le sue pieghe un segreto (avvenimenti taciuti, colpi di scena sepolti, nuove ragioni per le scelte dei personaggi), un segreto che il testo derivato è in grado di svelare. Da questo punto di vista, la riscrittura “ideale” è quella che ricalca fedelmente il testo originale, ma “riempiendone i vuoti” tra un episodio e l’altro, tra un paragrafo e l’altro, tra una parola e l’altra. È come se girassimo di nuovo un film, filmando però questa volta ciò che stava fuori dalle inquadrature del film originale, rovesciando il rapporto fra primo piano e sfondo, o più radicalmente rendendo interno ciò che prima era esterno, e viceversa. L’esempio forse più limpido di questa operazione è il calco operato da Philip Josè Farmer sul Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne (15). È evidente che qui l’operazione ermeneutica ambisce a una finta “oggettività”, che fa parte a pieno titolo della strategia narrativa con cui è confezionato il prodotto: ma sotto questa crosta si intravede invece l’ipertrofia della soggettività dell’autore derivato, che ambisce a dare un’interpretazione “autentica” al di là delle intenzioni dell’autore: come se uno scienziato, nel momento in cui formula nuove ipotesi, volesse imporre alla natura di comportarsi, negli esperimenti, in modo conforme alla nuova legge. Così accade, per esempio, in Vampiro di Saberhagen (che non a caso ha scritto la novelization del film di Coppola). Il Dracula di Saberhagen è un personaggio moderno, molto più moderno dello stesso Van Helsing. Egli è completamente cosciente dell’avvento di un nuovo ordine tecnologico e sociale in Europa: “E persino dall’alto della mia remota vetta montana, rivestita di foreste secolari, irraggiungibili come le profondità di pozzi abissali, io, grazie ai miei sensi interiori, udivo i mormorii del telegrafo che attraversavano l’Europa, ed i primi scoppiettii delle macchine a vapore e a combustione interna. Fiutavo il fumo del carbone e percepivo la febbre del mondo” (16). È lo stesso tema che, nel film di Coppola, viene rappresentato dalle immagini del sangue visto al microscopio. In Vampiro Dracula falsifica (in senso popperiano) la teoria di Van Helsing, attribuendo la morte di Lucy non al suo morso, ma alle incaute trasfusioni che non tenevano ancora conto della compatibilità tra gruppi sanguigni. Da questi, e altri episodi, emerge un Dracula cosciente della nuova epoca in cui vive, consapevole delle sue sconvolgenti possibilità. È il suo radicamento in un’epoca passata che gli consente di vedere la città con occhio straniante, di coglierne le caratteristiche più rilevanti, quelle stesse caratteristiche che invece gli abitanti contemporanei, vivendovi immersi, non riescono a cogliere. Anche il Dracula di Coppola è acutamente sensibile al mutamento: al contrario dei suoi predecessori, egli è cosciente del fatto che la sua epoca sta per finire. Sa che, appena nato, il cinematografo è capace di creare visioni più ammalianti di quelle indotte dai suoi sogni di vampiro, perché i fotogrammi erotici sono già più seducenti del suo sguardo, sa che il treno supererà in velocità il veliero, e che il microscopio è in grado di mostrare cose che nessun vampiro può vedere. Tutto questo nuovo mondo gli è estraneo, come il nuovo west, con tanto di mitragliatrici e automobili, è estraneo alle due bande di disperati de Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah. Ma in questo ultimo Dracula hollywoodiano la drammaticità del conflitto sembra stemperarsi nell’ermeneutica costantemente rivelata dalla componente tecnologica (quella del film, non le tecnologie evocate sulla pellicola). Nel film di Coppola, come Van Helsing subisce il fascino della nuova scienza, e la Londra brumosa possiede un’aria astratta che ricorda gli scenari della La macchina della realtà di William Gibson e Bruce Sterling (17), così tutto ciò che noi spettatori vediamo possiede un’aria familiarmente virtuale. Gli effetti speciali sono tradizionali, i fondali sempre identificabili, le situazioni e i comportamenti dei personaggi molto semplici. Ci troviamo in un video-gioco interattivo su Dracula. Assistiamo a un prologo storico, e subito ci troviamo nel castello. Si passa improvvisamente da un ambiente all’altro con un click del mouse, e i dialoghi sembrano porci domande in base alle quali potremmo selezionare sviluppi narrativi diversi, come in un CD-ROM interattivo. Esemplari, in questo senso, le scene dal treno verso il finale, con la loro esplicita citazione degli spot Campari di Federico Fellini. Dracula, il mostro sconfitto dal Novecento, è insomma l’annunciatore di un nuovo millennio, del regno del complesso e dell’immateriale. Il Dracula di Stoker, e indirettamente le sue riscritture, esprimono il momento cruciale del cambiamento dell’immaginario nella coscienza delle grandi masse, un fenomeno che è fortemente posticipato rispetto alla rivoluzione scientifica e all’affermarsi dell’era tecnologica (sta invece già per nascere la nuova scienza del Novecento: gli articoli di Albert Einstein sulla teoria dei quanti e sulla relatività ristretta compariranno solo otto anni dopo). Lamia di Powers rappresenta invece la svolta culturale fra Settecento e Ottocento. I protagonisti (i Romantici inglesi) vivono quella svolta non nella sua diffusione di massa, ma nella sua dimensione culturale. La scienza che trapela nelle pagine di Lamia è quella, appunto contemporanea al romanticismo, degli Ampère e dei Faraday. E in questo romanzo i vampiri stanno scomparendo, perché ci sono sempre meno anime nobili disposte a sacrificare i loro familiari per la bellezza e la purezza della poesia. Sulle lamie incombe perciò più la fine del letterato romantico e disinteressato, che non l’arrivo del nuovo scienziato attento alla traduzione tecnologica del suo lavoro. Di questo emergere, come abbiamo visto, è invece Dracula a spiegare le ragioni. La complessità e la ricchezza di questa figura spiegano le diverse e molteplici letture, alcune anche fortemente ideologiche, che ne sono state date. Franco Moretti, per esempio, nel suo saggio “Dialettica della paura” (18), ha letto il romanzo di Stoker come la metafora del conflitto tra il capitalismo libero-scambista inglese, rappresentato da Harker e dalla sua ditta, e una concezione rigidamente monopolistica, rappresentata invece dallo straniero Dracula: una lotta, quindi, tutta interna al capitale. Moretti può anche aver ragione a vedere in Dracula (come, nella prima parte del saggio, in Frankenstein) un riflesso dei cambiamenti e dei conflitti economici e politici dell’Ottocento; ma la sua identificazione di Dracula con il capitale monopolistico che tende a “distruggere ogni forma di indipendenza economica” (19) non è troppo convincente. Se rappresentasse davvero il “monopolista solitario, dispotico che non tollera la concorrenza” (20), il suo castello si troverebbe ben più a occidente. Su questo piano è più immediato, e più giustificato, vedere nel vampiro l’antico proprietario terriero, di discendenza feudale, il nobile che possiede la terra e su di essa basa il suo potere. E infatti Dracula, per sopravvivere, ha bisogno della terra di Transilvania, e dell’antico patto tra la terra e l’uomo tipico delle visioni religiose precristiane (ma che il cristianesimo, a dispetto di tutti i crocifissi e delle ostie dipiegati contro il vampiro, ha ereditato e legalizzato). Il vampiro, insomma, sembra esprimere piuttosto una resistenza arcaica al processo di deterritorializzazione generalizzato messo in opera dal capitalismo con i suoi cicli sempre più accelerati di circolazione della merce. Ma neppure questa, in effetti, rappresenta una lettura soddisfacente del personaggio Dracula e della sua tenace sopravvivenza, anzi della crescente fortuna proprio in questi anni, a un secolo di distanza dalla sua nascita. Perché Dracula si presenta come una figura così duttile e così aperta alla riscrittura? Per capirlo sarà bene, forse, entrare, più che sul terreno dei modi di produzione, su quello dell’economia politica dell’immaginario. Letta così, allora, la leggenda del vampiro era un materiale tradizionale che si prestava particolarmente bene a significare un processo, incipiente nel secolo scorso e sempre più sviluppato oggi, di ridefinizione dei confini tra vita e morte, di trasformazione del corpo a opera delle pratiche mediche e della tecnologia. Oltre, naturalmente, a esprimere la tendenza onnivora dell’immaginario moderno, pronto (ben al di là della pretesa ideologica di fondare la società su processi razionali, sul modello delle scienze naturali) a trovare posto al proprio interno per ogni sorta di figure e di spezzoni degli immaginari preesistenti, dagli dèi dell’antica Grecia a tutte le figure dei racconti orali di terrore. Nel momento in cui il capitalismo rendeva sempre più esplicito il processo di artificializzazione della vita e dell’ambiente su cui non poteva fare a meno di basarsi, Dracula incarnava da un lato insieme l’attrazione e la paura (atavica nell’origine, ma molto moderna quanto ai suoi sviluppi) per una possibile, ambigua vittoria sulla morte; dall’altro lo stesso processo dell’immaginario che è in grado di scambiare vita e morte, o di mescolarli a suo piacimento nella grande elaborazione collettiva delle sue figure. Perché, come tutte le figure dell’immaginario dell’età industriale, anche Dracula è il prodotto del lavoro del fruitore, del lettore, dello spettatore, oggettivato nel prodotto dell’industria culturale e attribuito al cosiddetto “autore” solo per comodità contabile. E non c’è da stupirsi che oggi, negli anni della manipolabilità tecnologica del gene, della medicalizzazione del corpo, dell’immortalità immateriale delle realtà virtuali, Dracula torni ad essere un protagonista dell’immaginario. Certo, non ha più il viso e le movenze allucinate di Bela Lugosi nel film di Browning del 1931. Oggi è il Dracula scettico di Saberhagen, tutto teso a fornire spiegazioni scientifiche al suo arcaismo, che ci confessa a un certo punto: “talvolta mi domando se la forza che traggo dalla mia terra non sia un fenomeno di carattere meramente psicologico” (21). È il Dracula di Coppola, che ribalta davvero i confini tra vita e morte, che fa dire paradossalmente a Mina “non mi sono mai sentita così viva”, che smaschera come i veri non-vivi coloro che, nelle versioni precedenti, erano stati gli eroi (22). È un Dracula che si avvia verso altre vite, riscritture, verso altre reincarnazioni, sempre sparigliando le carte dell’immaginario.

Note

  1. “Introduzione. Il grande sonno”, in Calibano “Il nuovo e il sempre uguale. Sulle forme letterarie di massa”, Savelli, Roma, 1978.
  2. Darko Suvin, Le metamorfosi della fantascienza. Poetica e storia di un genere letterario (Metamorphosis of Science Fiction. On the Poetics and History of a Literary Genre, 1979), Il Mulino, Bologna, 1985.
  3. Renato Giovannoli, La scienza della fantascienza, Bompiani, Milano, 1991.
  4. Thomas P. Prest, James M. Rymer, Varney il Vampiro (Varney the Vampyre, or, The Feast of Blood, 1847), Datanews, Roma, 1993.
  5. Bram Stoker, Dracula (Dracula, 1897), Mondadori, Milano, 1979.
  6. Tim Powers, Lamia (The Stress of her Regards, 1989), Fanucci, Roma, 1992.
  7. Alberto Pezzotta, “Il punto di vista e le sue interazioni”, in Filmcritica
  8. Fred Saberhagen, Vampiro (Vampire!, 1975), Fanucci, Roma, 1992
  9. Brian W. Aldiss, Dracula, signore del tempo (Dracula Unbound, 1991), Nord, Milano, 1993.
  10. Georg Simmel, “La moda” (1895), in Arte e civiltà, Isedi, Milano, 1976.
  11. Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo (Dialektik der Aufklärung, 1947), Einaudi, Torino, 1976
  12. “Introduzione. Il grande sonno”, op. cit. pag. 18.
  13. Donald Barthelme, “Il più grande trionfo del giocatore”, in Ritorna, dr. Caligari (Come Back, dr. Caligari, 1964), Milano, Bompiani, 1967, pagg. 189-201.
  14. Lewis Shiner, “La città della luce” (“White City”, 1990), Isaac Asimov Science Fiction Magazine it. Telemaco Edizioni, n. 1, gennaio 1993. Il testo del racconto si può trovare alla pagina: https://www.fictionliberationfront.net/whitecity.html
  15. Philip Josè Farmer, Il diario segreto di Phileas Fogg (The Other Log of Phileas Fogg, 1973), Urania 1140, 18/11/1990.
  16. Fred Saberhagen, op.cit. pag. 11.
  17. William Gibson, Bruce Sterling, La macchina della realtà (The Difference Engine, 1991), Mondadori, Milano, 1992.
  18. Franco Moretti, “Dialettica della paura”, in Calibano 2, cit.
  19. Franco Moretti, op. cit., pag. 87.
  20. Franco Moretti, op. cit., pag. 87.
  21. Fred Saberhagen, op. cit. pag. 57
  22. Franco La Polla, “Dimenticare Dracula, ovvero: la dissolvenza delle attrazioni”, Cineforum 321

 

L’articolo è tratto dalla Alphaville, n.1, Phoenix, 1998, curata da Daniele Brolli e Antonio Caronia.

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