Chloé Delaume / Storia di una donna come noi

Chloé Delaume, Povera pazza. Perché in fondo le storie d’amore servono solo a guarire dall’infanzia, tr. di Sofia Tincani, Mincione Edizioni, pp. 178, euro 18,00 stampa

«Clotilde non vuole morire prima di aver visto donne e ragazze alzarsi a una a una tenendosi per mano. Carmagnola sororale che smantella un sistema che colonizza corpo e pensiero; che ribalta ridendo i valori della fallocrazia; che distrugge in un coro di collera i bastioni del virilismo sovrano. Insieme devono ballare al suono dei cannoni: non si possono uccidere i costumi, solo farli evolvere. La distruzione delle gerarchie non si fa con l’ascia, e la tranciatura della giugulare o del pene dei maschi alfa sporcherebbe il tappeto facendone dei martiri. Non servono armi, ma strumenti». Partiamo da qui, da questo concetto che è un po’ l’essenza del libro. L’autrice francese Chloè Delaume è solita concentrarsi con la sua opera letteraria su esperienze autobiografiche e con un approccio decisamente sperimentale, a colpi di femminismo e autofiction. In questo suo ultimo lavoro, infatti, ne conosciamo l’alter ego, Clotilde Mélisse, scrittrice che esorcizza episodi della sua vita nei libri, la incontriamo in treno durante un suo viaggio che parallelamente intraprende anche nei ricordi. La sua passione per la poesia nata dal desiderio di compiacere la madre e catturarne l’attenzione, tutti i disturbi che negli anni le hanno presentato il conto dopo aver assistito all’omicidio della madre commesso dal padre, quegli istanti durati un’eternità in cui il genitore prima di spararsi le ha puntato contro una pistola.

Quando ciò accade è il 1983 e Clotilde ha poco più di dieci anni, da quel momento tutto verrà rivoluzionato e quell’uxoricidio inciderà per sempre sulle relazioni future della bambina. Da lei apprendiamo che non c’erano parole per descrivere un gesto così brutale come un femminicidio, che avremmo dovuto aspettare il 2015 per vedere quel termine sul dizionario anche se nel 1976 a Bruxelles è stato pronunciato per la prima volta dal Tribunale dei crimini contro le donne durante un evento di quattro giorni, in occasione del quale Simone de Beauvoir ha tenuto il discorso d’apertura definendo quel Tribunale come l’inizio della decolonizzazione radicale delle donne.

Sul treno con Clotilde, ormai adulta, proseguiamo il viaggio dentro la sua memoria attraverso ragionamenti puntuali, precisi, anche tecnici nella loro terminologia mai scontata, sebbene si potesse correre il rischio di scadere nel banale, e arriviamo a toccare corde molto intime del suo personale come il bipolarismo o la prostituzione, sempre con una narrazione priva di vittimismo e più incentrata sull’autoanalisi, per arrivare poi al cuore del libro: Guillaume. La loro intensa storia d’amore torna dopo dieci anni a turbare un equilibrio che si era stabilito in maniera forzata per istinto di sopravvivenza da parte di Clotilde. Guillaume, regista omosessuale che sconvolge la scrittrice e nasce da un colpo di fulmine in una sera d’estate. Guillaume che la sconvolge a tal punto da farle provare un amore assoluto e minare al contempo la sua autostima.

Un racconto spietato quanto coraggioso di una personalità complessa, espressa con una voce schietta e profonda che davvero arriva alla mente prima che al cuore, e fa nascere discussioni e riflessioni da affrontate senza maschere o attenuanti. Sono molti i passaggi da sottolineare che si imprimono come quelli inerenti alla terapia farmacologica e sul pregiudizio della società nei confronti di un malato di mente. Una prosa quasi poetica, a tratti graffiante scava pagina dopo pagina nell’inconscio in un’eterna disamina dell’animo. Una lettura straordinaria pubblicata da una piccola casa editrice che porta il nome della sua fondatrice Mariangela Mincione, ex libraia appassionata e curiosa lettrice, che con molto coraggio ha scelto di andare controcorrente non solo con la scelta del suo catalogo, ma anche con la copertina di questo libro in particolare. Non troverete infatti la solita foto piaciona e ammiccante ma solo scritte e nessun disegno. Il titolo, il nome dell’autrice, l’editore e la traduttrice, stop. Minimalista ed essenziale, come piace ai veri lettori, il resto è superfluo e distoglie l’attenzione dal contenuto. Che in questo caso è imperdibile.