Nuova casa editrice per Elizabeth Von Arnim, già ospite fissa in casa Bollati Boringhieri. Scrittrice britannica, nata in Australia col nome di Mary Annette Beauchamp, ha vissuto due matrimoni burrascosi. Il primo con un conte tedesco, il secondo con un duca inglese. A cavallo tra due epoche, ha combattuto le guerre di una donna evoluta che vuole vivere libera.
Ci riuscirà grazie al suo talento narrativo.
I suoi temi prediletti sono i conflitti, le disillusioni, le prigioni. Avvengono incontri e le scelte sono tormentate come in Amore, o lievi come in Uno chalet tutto per me. La narrazione è delicata, ordinata, non urla e spesso si ripete. Anche in Vera la lingua insiste, spiega e si ritorce, cuce il ricamo di accadimenti violenti, a punto ago. E lo fa con perbenismo, come quando si serve il tè a qualcuno che vorresti uccidere, ma gli sorridi.
Poi finalmente tutto quell’ombroso parlottio prende corpo. Corpo di dolore.
Lucy, la protagonista, è come la sposa di suo padre. Il giorno in cui lui improvvisamente muore, lei non ha nessuna intenzione di prenderne coscienza. Giovane e sciocchina, cerca rassicurazione immediata, e subito la trova nel primo che passa per strada. Sembra un evento improbabile, ma lo accettiamo. Lui non aspettava altro che una bella vittima fresca. Diventano un’inseparabile coppia sado-maso, e lo diventano in modo tanto tenero, che il lettore freme di indignazione. Possibile che la ragazza non si accorga in che inferno sia entrata?
Si sposano in fretta e furia. Lui è un Barbablu benestante e morbosamente legato a rituali autocelebrativi, folli ed esilaranti. Controlla ogni parola si dica, ogni pensiero si pensi, la disposizione di ogni oggetto, i comportamenti della servitù che tormenta malvagiamente. Lui chiama “amore” la sua perversione, lei chiama “amore” la sua paura. Ogni volta che Lucy prova a ribellarsi, subito interviene il censore interno, a mangiarsela viva. Lucy è come ebete. Gli amici e i parenti le segnalano il pericolo, ma lei sorride. Intanto la polizia indaga sulla morte di Vera, la prima moglie, precipitata – forse – dalla finestra della camera, che diventerà la camera di Lucy.
I luoghi – la villa che si chiama “The Willows”, alludendo a lacrime amare, la camera col davanzale troppo basso da cui è caduta Vera, l’imponente alcova, i grandi ritratti di Vera appesi ai muri – sono un gioco di specchi.
Lucy “vede”, ma continua a mentire, rimandando il tempo della verità.
Cruciale la figura della zia di Lucy, l’unica persona in grado di tener testa al mostro. Molto interessante il duello finale, tra loro due. Lucy, si salverà?
Sembra che Von Arnim abbia raccontato in Vera il cinismo del suo secondo marito.
Ne I cani della mia vita (Bollati Boringhieri, 2014) – una sorta di autobiografia dove in primo piano ci sono i suoi cani, e in secondo le persone – Elizabeth racconta di aver lasciato l’adorato cane Coco, per seguire in Inghilterra il suo secondo marito.
Dopo cinque anni torna a casa. Il matrimonio è finito, lei è distrutta. Il concierge va a prenderla alla stazione, sotto una fitta nevicata, da solo. Coco non c’è. Coco, sta morendo. Arrivata sulla soglia, lo vede. Lui è riuscito a trascinarsi fuori, per salutarla, nei suoi ultimi secondi di vita. Un amore commovente, che deve averla risarcita da tanto disinganno “umano”.
Elizabeth Von Arnim conosce bene la difficoltà di rimettersi in piedi dopo i fallimenti.
Vera è un dramma acuto, i personaggi sono ben orchestrati.
Anche la fine è perfetta.