Dora Šustić / Il demone nella mente

Dora Šustić, I cani, tr. di Sara Latorre, Bottega Errante Edizioni, pp. 232, euro 18,00 stampa, euro 10.99 epub

«La scrittura in realtà non è nient’altro che un suicidio dilatato nel tempo», scrive Dora Šustić ne I cani, potente esordio letterario dell’autrice croata, impegnata anche nel campo cinematografico come regista e sceneggiatrice. Scrivere è vergare una lettera d’addio, ritardare la fine, scrivere è frugare in un vecchio cassetto per trovare i documenti che confermino il nostro esistere, scrivere è esorcizzare le ossessioni che abitano l’anima. “È tutto nella mia testa. La mente è un demonio”, afferma la protagonista cercando di arginare il flusso di pensieri che l’assale. Sin dalle pagine iniziali capiamo che la morte è onnipresente nel libro: compare nel suicidio dell’ignoto che si getta sotto il treno per ragioni oscure, nella figura della zia Margita, lanciatasi dalla finestra a sedici anni per un amore non corrisposto, nella professione del padre di Dora, un anestesista impegnato a “intorpidire la carne” combattendo una lotta impari con la sofferenza per domare il corpo, riducendo il trauma del passaggio verso l’ignoto.

I cani del titolo, i galgos, sono la materializzazione del dolore che perseguita la protagonista. Un incontro casuale con un uomo più grande di lei, segnato da un’esperienza terribile, le ha lasciato in eredità il progetto di un libro fotografico in bianco e nero, abitato da randagi votati a un destino crudele che li vede combattenti spietati o vittime sacrificabili. In un pellegrinaggio che è anche una fuga verso l’ignoto, Dora si cala nelle nebbiose atmosfere praghesi, per poi approdare nell’assolata Cadice, dove la paura della morte viene sconfitta con il flamenco. L’irruenza della giovinezza viene descritta con toccante sincerità, così come la sessualità femminile, indagata in tutti i suoi aspetti con cruda franchezza. Non a caso l’epigrafe del libro reca la firma di Virginia Woolf, autrice refrattaria alle convenzioni sociali della propria epoca, costantemente dedita alla conquista di una propria irrinunciabile autonomia.

Dora percepisce il pericoloso baratro dentro sé stessa, nel quale rischia di precipitare, ma la sua forza proviene dal legame con tutte le altre donne. Un vincolo che spazza via la solitudine. Dora ama Leon perché è diverso dagli altri uomini, anche se la contagia con la sua tristezza quasi fosse una malattia venerea; Leon è anche un artista senza un’occupazione stabile, uno straniero che verrà sempre visto con sospetto nell’Europa occidentale. A questo punto la scrittrice, facendo separare gli amanti e impedendo un loro ricongiungimento, anche se probabilmente effimero, introduce nel libro la tematica delle migrazioni e dell’estraneità, particolarmente sensibile nel nostro tempo.

Ci troviamo di fronte a uno scenario nel quale le barriere proliferano, scavando un solco fra gli esseri umani, consegnandoli alla solitudine più crudele della quale i galgos sono il simbolo. Il romanzo è prima di tutto una confessione, un viaggio all’interno dell’io e delle proprie ossessioni, un percorso irto di spine verso la conquista della libertà.