Sfatare la leggenda nera

Pier Luigi Vercesi, Fiume. L'avventura che cambiò l'Italia, Neri Pozza, pp.160, € 12,50 stampa, € 7,99 ebook

Il lessico italiano include un termine dinnanzi al quale tremano i polsi anche ai più coraggiosi. È fonte di infinite discussioni, arma contundente che tacita ogni diatriba: “Revisionismo”. Risuona cupo, a indice teso, e consegna l’ultima parola, a torto o a ragione, a chi l’ha usato. Perché nel mondo odierno, in cui la storia viene scritta dai vincitori e decisa per legge, l’idea che sia possibile acquisire nuove testimonianze, scoprire e interpretare nuovi documenti, togliere la patina ideologica (nel senso originario marxiano, non in quello dell’uso comune) all’accaduto e leggerlo, anche se non in una nuova prospettiva, nelle sue ben celate ambiguità, è impensabile. Chi ha buona memoria ricorderà le reazioni di intellettuali e popolo quando gli storici francesi “revisionisti” dissero, in buona sostanza, che la Rivoluzione Francese non era nata con le tumultuose masse dei sanculotti ma all’interno della borghesia medesima; per non parlare della bagarre suscitata da Ernst Nolte, a cavallo del 1986-1987, con la pubblicazione di un intervento e un libro in cui leggeva fascismo e nazionalsocialimo come risposte amplificate alla rivoluzione bolscevica e che diede il via al dibattito storiografico.
Perché naturalmente anche il Revisionismo (e il suo contrario, che potremmo definire Conservatorismo), è un’arma politica, come tutto ciò che appartiene al mondo umano, ma lecita solo in una direzione: nessuno si sognerebbe di affermare che Massimo Fini, quando scrisse Nerone (1993), in cui prendeva le distanze dalla damnatio memoriae del buon imperatore, fosse un “revisionista”; ma già la pubblicazione de Il Mullah Omar (2011), non allineata agli standard del pensiero occidentale, costernò parecchi intelletti, politici o meno. Figuriamoci quando un malcapitato decida di esprimere il suo pensiero riguardo ad altri fenomeni storici considerati inappellabili dal Conservatorismo…
Eppure il Revisionismo è importante, poiché, al di là dell’interessato veto politico del Conservatorismo, sovente rimette i termini della questione nel loro svolgersi storico, prima che l’ideologia ne coprisse i vari aspetti. Prendiamo il 1919, quando Gabriele d’Annunzio si mise a capo della straordinaria impresa di prendere la città di Fiume, che aveva scelto di restare con la madrepatria. Pier Luigi Vercesi ne tratteggia una breve storia, una sintesi agile, in cui però tutti i punti della questione vengono messi in luce, muovendosi fra le secche del Conservatorismo e i rischi dell’agiografia. Ne viene fuori il quadro completo dell’azione, con i tentennamenti del solito imbelle governo italiano (Orlando, Nitti, Giolitti), incapace di imporsi con i propri alleati, la solita incapacità politica (la polizia a Roma che spara ai manifestanti pro-fiumani) e la volontà di un gruppo di persone di supplire con metodo e forza ai pasticci della politica.
Straordinaria è la partecipazione, dietro le fila, di un gran movimento di persone che non si immaginerebbe: Ludovico Toeplitz de Grand Ry, l’imprenditore Oscar Sinigaglia, Senatore Borletti, diversi armatori italiani, tutti impegnati a trovare soldi per la causa fiumana sopratutto quando l’azione del governo italiano contribuisce a mandare in crisi l’economia del piccolo stato. E a fianco anarchici, socialisti, comunisti, sindacalisti rivoluzionari, segno di una possibile unione, di una “terza via” che avrebbe potuto avere grandi conseguenze. E poi colpi di mano, uniformi improbabili, stendardi, beffe d’ogni genere, furti di cavalli e di abiti, assalti corsari a navi, e amori e cocaina e musica e letteratura che si susseguono, in un crescendo inarrestabile (e anche divertente, dato il contesto), fino al tradimento del Trattato di Rapallo e all’affronto finale, quando il mai abbastanza esecrato generale Caviglia ordinò il cannoneggiamento.
Ecco i fatti di Fiume, che molti ignorano. Abbiamo detto sintesi agile, e aggiungiamo che si legge volentieri e come un romanzo, ma tutto ciò viene minato da una grave pecca: la mancanza di una bibliografia, che Vercesi afferma inopinatamente di voler in seguito mettere in rete, per non appesantire il testo. Ciò significa che il lettore segue le vicende, ma ignora da dove siano stati presi i virgolettati, sempreché non abbia a disposizione una vasta biblioteca sul tema. Capita a volte di incontrare testi in cui maldestramente (o peggio con orgoglio), gli autori affermano di non aver posto bibliografia per vari motivi (perché inutile, perché pensano di sapere tutto loro, etc), ma quando accade parlando di storia è un problema, e grave. Eppure, con il trascorrere del tempo, ci dovremo abituare anche a questo.
Ciò che purtroppo l’autore non dice, sebbene meritevole di interesse, è cosa accadde dell’esperienza fiumana. Il Fascismo ebbe buon gioco a inquadrare e tacitare i legionari e sopratutto il loro comandante, da cui ci si poteva aspettare ogni impresa, compreso la concorrenza a Mussolini, mentre molti elementi si spostavano verso quella sinistra auspicata dal gruppo radicale; nacquero le onoranze, le celebrazioni, furono ripresi i modi e le parole d’ordine; ma con la fine della guerra, la genuflessione collettiva dinnanzi alla Jugoslavia di Tito, la cacciata degli italiani del litorale adriatico, i patti sotterranei fra gli “atlantici” di ogni schieramento e gli Stati Uniti, la questione divenne un affare funesto, fu seppellita, ignorata. Chi è cresciuto a pane e Camera-Fabietti rammenterà l’interdetto a proposito.
Per amore di verità storica va detto che se la sinistra leggeva l’impresa come una manifestazione prodromica al Fascismo (o addirittura fascista, per i più incolti, dimentichi che Mussolini, dopo l’entusiasmo iniziale, ritirò il suo appoggio) e quindi necessariamente rimovibile dalla memoria storica, la destra non era meglio, giacché leggeva la situazione (solo) come una meritoria azione patriottica, cercando di dimenticare che Fiume non era stata certo un esempio di moralità pubblica, e quindi anziché esaltarne gli aspetti libertari preferì un moderato entusiasmo. Gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta trascorsero in quella che Nicola Merola chiama “crociata antidannunziana”, e quindi silenzio sul problema, ma con gli anni Settanta le cose iniziarono a cambiare; perché, per fortuna, esiste il Revisionismo, e quindi pian piano gli storici iniziarono a guardare meglio cosa era accaduto, facendo storcere il naso a parecchi.
Ricordiamo, fra quelli che imboccarono questa via, il benemerito Renzo De Felice, un vero antesignano, che indagò sugli aspetti tecnici della questione politica in Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris-D’Annunzio (1966); Michael Arthur Leeden, che in D’Annunzio a Fiume (1975) fece il punto sull’aspetto “rivoluzionario” dell’attività politica; Piero Chiara in Vita di Gabriele d’Annunzio (1978), che mise in luce le traversie politiche e il clima disinibito se non orgiastico di Fiume; assoluto silenzio, almeno in Italia dove venne pubblicato nel 1998, seguì TAZ-Zone Temporanemente Autonome (1985) di Hakim Bey, ovvero il pensatore anarchico Peter Lamborn Wilson, che ascrisse l’impresa proprio alla sua teoria sulle zone liberate dal potere. Andando avanti nel tempo, anche Antonio Spinosa nel suo D’Annunzio. Il poeta armato (1987) unì l’aspetto dell’utopia politica con a quello dell’edonismo, e Claudia Salaris contribuì a ri-creare il mito fiumano con Alla festa della rivoluzione (2002) nei termini della “festa” degli spiriti liberi, della creazione di cultura.
Ed eccoci ora a un nuovo anniversario. Sono passati quasi cent’anni dall’impresa fiumana, e la conoscenza di Gabriele d’Annunzio da parte degli italiani è relativa alle costolute leggende urbane che si tramandano nei banchi di scuola, mentre agli insegnanti democratici “d’Annunzio non piace” e quelli di storia preferiscono glissare. Uomini politici e intellettuali engagé poi, nella frenesia multiculturale, hanno dimenticato non solo i profughi italiani cacciati da Tito, l’impresa fiumana, perfino d’essere italiani, ma se lo ricordassero non interesserebbe loro, perché oramai siamo tutti europei, e quindi possiamo gettare nel dimenticatoio la nostra storia… o almeno, solo una parte. Quella non vidimata con il timbro a stelle e strisce.
Pensiamo cosa sarebbe accaduto se non fosse esistito il Revisionismo, se non ci fossero stati, a partire da De Felice, i contributi di coloro impegnati a smontare la leyenda nigra sorta attorno a Fiume. La gente penserebbe ancora ad un’azione “fascista” (e quindi ontologicamente errata) anziché pensare che ci fu una sinistra che partecipò all’azione, cercando di creare addirittura una Lega dei Popoli (oggi diremmo: non allineati) che agisse in senso contrario alle decisione della Società delle Nazioni (ovvero del capitalismo americano)…
Anziché leggere la costituzione fiumana, opera di d’Annunzio e Alceste De Ambris, come un’assoluta novità (molto più equilibrata e avanzata dall’attuale, la “costituzione più bella del mondo” come l’ebbe a nominare un uomo politico di scarsa cultura), ignorerebbe che sia stata stilata. Continuerebbe a pensare a un raduno di reduci, “fascisti”, militari disertori, e non di intellettuali come Mario Carli, Giovanni Comisso, Ricciotto Canudo, il nipponico Harukichi Scimoi, il russo Leon Kochnitzky, il giornalista americano Henry Furst, e perfino Guglielmo Marconi e Arturo Toscanini che fecero la loro comparsa. Non saprebbe che a Fiume le donne erano eguali agli uomini, che il piccolo stato era laicissimo ma ogni culto era accetto, che i frati manifestarono contro la Chiesa, l’omosessualità non destava scandalo, la scuola era obbligatoria per tutti, vigeva il libero amore, si cercava di riorganizzare su basi sociali il lavoro sognando una rivoluzione terzomondista contro il profitto. Non saprebbe, che, come scrisse Claudia Salaris, i legionari erano quelli che gridavano nietzscheaneamente “sì alla vita”.
Sarebbe insomma un altro tassello del passato rimosso, qualcosa su cui non riflettere; ma forse è proprio questo il nodo del contendere: la gente non deve sapere, pensare, ma, paghi di ciò che media e Conservatorismo ammaniscono loro, crogiolarsi in una grassa totale ignoranza, magari quella citata dal medesimo d’Annunzio per stigmatizzare Nitti: la figura dell’immondo Cagoja, il “crapulone” che dice: Mi no penso che per la pansa.