Imbattersi in un libro inatteso costituisce un’avventura emotiva. Tale convinzione esce rafforzata dalla lettura del romanzo di uno scrittore dal nome roboante, Garibaldi Mario Lapolla, pubblicato negli Stati Uniti nel 1931 e meritoriamente presentato da noi con il titolo Il fuoco nella carne da Edizioni readerforblind, piccola realtà che nel 2021 ha azzardato il passo da rivista online a casa editrice, “esclusivamente dedicata alla narrativa d’autore, tra riscoperte di classici dimenticati della letteratura italiana e nuovi voci contemporanee, italiane e straniere”, come si legge sul sito. Un inedito che lascia il segno, opera di un italoamericano di limpido talento e variegata cultura, che ben s’innesta nel dibattito contemporaneo su migrazione e identità culturale.
Quella degli autori di origine italiana in lingua inglese è storia complessa e stratificata, le cui radici affondano nell’Ottocento con la pionieristica figura di Joseph Rocchietti, ma che ha trovato nel Novecento la sua fase più definita e qualitativamente valida, in seguito ai fenomeni migratori di massa a cavallo dei due secoli. Hanno visto così la luce scrittori come Pietro Di Donato, Pascal D’Angelo, John Fante, in seguito Gay Talese. A parte Fante, la cui ricezione in Italia fu mediata da figure come Emilio Cecchi, molto pompato nell’ultimo ventennio del secolo passato, e il successo globale ottenuto da Mario Puzo con la saga del Padrino, i citati ed altri interessanti autori hanno dovuto aspettare parecchio prima di essere scoperti dalla critica e dall’editoria italiana. Esempio ne è proprio Lapolla, autore di tre romanzi, tra cui l’esordio, The Fire in the Flesh.
Vi troviamo i motivi cardine di quel filone letterario: l’autobiografismo sociale e la rappresentazione di enclave come Little Italy, i conflitti identitari, il contrasto tra assimilazione e tradizione, il ruolo centrale della famiglia e della comunità come fonti di sostegno ma anche di conflitto, le durissime condizioni di vita degli immigrati e la mobilità sociale, la critica al materialismo americano, il realismo e il simbolismo religioso. Ma vi si ravvisa anche ciò che lo differenzia da quella tradizione: l’assenza di accenti didascalici, dell’esotismo folkloristico e del riduzionismo sociologico, che non di rado indeboliscono questo tipo di narrativa. Soprattutto, si nota la centralità strutturale e tematica della sessualità, e una peculiare rappresentazione di genere: diversamente dagli autori a lui contemporanei, i personaggi femminili in Lapolla non appaiono stereotipati. La protagonista, Agnese, ha uno statuto ontologico compiuto, non è rinchiusa in ruoli tradizionali. Certo, gli italiani ritratti in questo romanzo sono riconoscibilissimi in quanto tali, ma la forza narrativa del loro creatore, la capacità di trasfigurazione li pongono a un livello superiore a tanti loro omologhi. Ma procediamo con ordine.
La trama ricorda alla lontana quella della Lettera Scarlatta di Hawthorne: una sedicenne, Agnese Filoppina, rimane incinta di un parroco d’un paese dell’Italia meridionale, Villetto. Siamo, presumibilmente, agli albori del Novecento o giù di lì, e lo scandalo è grande. La puerpera si ritira in una grotta per mettere al mondo il figlio, in completa solitudine: è l’antefatto, che avviene fuori scena, i cui particolari veniamo ad apprendere nel corso della narrazione, con accorto montaggio per flashback. Qui finisce il parallelo con il precedente hawthorniano, dove Esther Prynne si ritrae nella foresta, per poi accettare il marchio d’infamia sociale e scontare il suo “peccato” indossando l’infamante “A” di adultera. Agnese è personaggio di tutt’altra fatta: assertrice della propria individualità a contrasto con il ruolo in cui la confina la comunità, si ripresenta davanti ad essa, in chiesa durante la funzione di una festa comandata, e accusa apertamente il suo amante, che sta celebrando il rito, di aver approfittato del suo candore e del suo amore e di averla abbandonata a se stessa. È la scena iniziale, un incipit magistrale che disorienta il lettore per la sua potenza narrativa. V’è in nuce tutto quel che seguirà: il dominio delle passioni che tiranneggiano e consumano la carne e lo spirito dei personaggi (emblematico il titolo), la struttura ibrida che fonde la letteratura verista italiana con il realismo urbano americano (evidente l’influenza di Dreiser), le figurazioni espressionistiche delle novelle pirandelliane con il simbolismo della tradizione puritana americana, l’impianto drammaturgico e le immagini shakespeariane con il melodramma italiano. Nativo di un paese lucano (Rapolla), Lapolla giunse in America a due anni nel 1890, si laureò alla Columbia University ed insegnò letteratura inglese alla DeWitt Clinton High School e in altre scuole newyorkesi, di cui divenne anche preside, e fu autore di testi scolastici (oltre che di drammi, racconti, poesie e libri di cucina): ne aveva dunque profonda conoscenza, ma era anche impregnato della tradizione letteraria italiana, e la capacità di amalgamare culture e costumi diversi lo pongono fuori da quella “nicchia etnica” in cui è stata a lungo relegata la narrativa italoamericana, situandola piuttosto in una dimensione di transnazionalità che lascia balenare gli sviluppi futuri percorsi dalle voci contemporanee, che affronteranno in modi nuovi e sfaccettati temi quali la memoria, l’alienazione, la sessualità e il rapporto con l’Italia. Se v’è un limite nel suo stile, lo si rintraccia nell’eccesso melodrammatico di talune scene, un barocchismo che rimanda a certa tradizione siciliana, una sovrabbondanza di tensione che finisce per sfumare il contenuto emotivo. Una prosa comunque scintillante ed incisiva, pregevolmente resa nella traduzione di Erika Silvestri, a cui va anche il merito della fedeltà al testo, con la scelta di mantenerne “il più possibile intatta l’atmosfera originaria”, di preservare “non solo il significato ma anche le sfumature culturali che lo caratterizzano”, come ella scrive nella nota introduttiva. Ed anche quello di non aver ceduto al politicamente corretto, mantenendo espressioni idiomatiche e imprecazioni che costituiscono il tessuto connettivo della struttura linguistica, serbando così “la voce autentica dei personaggi e dell’autore”.
La caratterizzazione dei personaggi conferma l’apertura cosmopolita. Agnese ha la statura letteraria di una Moll Flanders, di una Anna Karenina, di una Madame Bovary. La capacità di sopportazione, di risposta alle avversità e la forza con cui si strappa al ruolo in cui la si vuole intrappolata, la straordinaria resilienza – diremmo oggi – e propensione all’adattamento nel Nuovo Mondo, dove emigra insieme ad un marito inetto ma devoto che si fa carico del suo fardello, dove rincorre e realizza, con intelligenza istintiva e una volontà di potenza schopenhaueriana, quella “fortuna” tanto agognata dagli emigranti – tutto ciò la pone in uno status superiore a quello di “eroina”: è figura larger than life, sorta di controparte femminile del superuomo nietzschiano, ma, al contempo, donna umanissima, che dietro l’imperturbabile maschera di ghiaccio serba in sé un dolore ed una fragilità strazianti. Accanto a lei, nella ricca galleria umana ritratta con acutezza psicologica dall’autore, altre figure si fanno ricordare: Michele Dantone, il vulnerabile marito roso da un’implacabile gelosia, perdente nato la cui balbuzie è relato metaforico del dubbio e dell’inazione, quasi una contadinesca figura amletica; Antonio, il focoso spasimante, indefesso costruttore di case e controparte maschile di Agnese; Gesualdo, di lei padre, figura manzoniana sempre protesa al rattoppo e alla conciliazione, simbolo del trapiantato che per età non riesce nella trasformazione identitaria propedeutica all’assimilazione; l’altro suo figlio, Luigi, come tutti schiavo della magnetica volontà della sorella; Giovanni, il figlio del peccato, adolescente sensibile che lotta per scoprire un segreto celato, figura d’artista in nuce; Gelsomino, suo padre, trasfigurazione del reverendo Dimmesdale di hawthorniana memoria, scisso tra l’amore mai sopito verso Agnese e la ricerca del figlio negletto, e ulceranti desideri di redenzione e di ritiro spirituale dal mondo; la domestica Concetta, sorta di personaggio faulkneriano, che con il suo cinico pragmatismo tiene in piedi una baracca che rischia continuamente di sfasciarsi, ed altri ancora: donne ed uomini resi nella loro materialità “di carne”, in balia di oscure pulsioni, di un’energia irrefrenabile che li divora come una fiamma interiore, accendendone e sconvolgendo le esistenze, spingendoli verso il cambiamento ma anche verso la distruzione, composti di un melting pot le cui identità etniche non si lasciano sciogliere, contravvenendo ad uno dei miti fondativi dell’identità americana.
Coprotagonista della vicenda è New York, in particolare East Harlem, percorsa da pericolose bande di ragazzi perduti, da torme di sventurati che mendicano pane e lavoro, con l’East River a lenire ferite mai sanate, i carghi e i traghetti che lo solcano incessanti, il martellante rumore delle sopraelevate e dei cantieri edili, frastuoni di una città in frenetico, feroce sviluppo, così drammaticamente altra dal tranquillo e silenzioso borgo natio.
Con i Dantone, però, Lapolla tratteggia una famiglia che con abnegazione e faustiana forza di volontà “ce l’ha fatta”, poiché ha introiettato l’etica materialistica del Paese che li ha accolti, dunque in apparenza ha realizzato il “sogno americano”, sua caratteristica fondante, anche se filtrato dalla specificità italiana. La riuscita fusione di tradizioni culturali diverse, la rappresentazione di identità ibride, non avviene quindi solo a livello linguistico: il romanzo appare come un laboratorio culturale, specchio delle contraddizioni dell’americanizzazione e delle diaspore moderne, diremmo oggi, in cangiante equilibrio tra nostalgia, critica sociale e, appunto, ridefinizione dell’American dream. Ma il finale ambiguo, né tragico né redentivo, quasi un anticlimax dopo una potente scena di resa dei conti di impianto drammaturgico, una conclusione intrisa di un’ineludibile amarezza esistenziale, enfatizza la natura irrisolta dell’identità biculturale, della tensione morale che smotta interiormente i personaggi, lacerati da bisogno di appartenenza, riscatto, amore e vendetta.
Con questo romanzo, arrivato a maturazione dopo aver oltrepassato i quarant’anni, nel pieno della maturità umana, Lapolla è dunque tra i primi autori a esplorare la complessità di un’identità italo-americana ottenendo un certo successo (era edito da Vanguard Press), e aprendo la strada a scrittori come Fante e Di Donato. Questo folgorante esordio, materia poi sviluppata in quel che è considerato il suo capolavoro, The Grand Gennaro (1935), di cui attendiamo la traduzione, riflette un’intuizione letteraria portata avanti collaborando con Leonard Covello, sociologo e pedagogista esperto nella didattica interculturale suo collega alla DeWitt, che sembra anticipare concetti quali la Bicultural Identity Integration, il “terzo spazio” di Homi K. Bhabha, e che troverà conferma nella teorizzazione della fluidità culturale di Benet-Martínez. Ma al di là di questo e di altro che si potrebbe dire, Il fuoco nella carne si staglia come un romanzo dalla gradevolissima lettura, che rimane inciso a fuoco nella mente del lettore.