Gatsby fa 100 anni!

Il grande Gatsby compie cent’anni: accolto con freddezza alla sua uscita nel 1925, è stato riscoperto solo dopo la morte di Fitzgerald. Diventato simbolo del sogno americano, ne svela il lato illusorio e ingannevole attraverso la figura di Gatsby, maestro dell’autoinvenzione. Oggi, nell’era della post-verità e di Donald Trump — miliardario immobiliarista reinventatosi salvatore della patria — il romanzo suona più attuale che mai.

Arriviamo un po’ in ritardo, ma meglio tardi che mai. I cent’anni del romanzo più famoso di Francis Scott Fitzgerald cadevano il 10 aprile, e sarebbe stato più corretto fare uscire allora questo pezzo commemorativo. Ma a pensarci bene è più giusto che si arrivi in ritardo, perché quello che oggi viene considerato un classico contemporaneo (intendendo questo aggettivo con una certa elasticità, un secolo non è poco) ci mise del tempo a farsi apprezzare – e se consideriamo la vita del suo autore, il successo lo raggiunse terribilmente, tragicamente tardi.

Ma torniamo a quell’aprile del 1925. Fitzgerald in quel momento era un autore di punta della scena letteraria americana. Aveva sfondato col primo romanzo, Di qua dal paradiso, nel 1920, vendendo 50.000 copie; con il secondo, Belli e dannati, del 1922, nonostante le critiche non proprio entusiastiche, era arrivato a 70.000 copie vendute. Siccome non c’è due senza tre, la casa editrice, Scribner’s, si aspettava un ennesimo successo, e vendite ancora maggiori, visto che ormai Fitzgerald era uno scrittore dalla fama consolidata.

Dopo una gestazione travagliata, l’uscita de Il grande Gatsby fu invece un mezzo flop: meno di 20.000 copie vendute, nonostante le recensioni stavolta fossero per lo più positive (pur con qualche voce fuori dal coro). A poco valsero a Fitzgerald le lettere piene di complimenti che gli arrivarono da Thomas Stearns Eliot, Willa Cather, Edith Wharton. Il pubblico americano non sembrava più interessato a lui; soprattutto, da quel romanzo non vennero i dollari che lo scrittore si aspettava. FSF restò a galla con i suoi racconti, che aveva sempre alternato alla scrittura dei romanzi, ma il seguito della sua vita fu tutt’altro che sereno, come ben sappiamo, tra alcolismo, debiti, il lavoro degradante di sceneggiatore a Hollywood, l’insuccesso di Tenera è la notte nel 1934, i problemi mentali della moglie, e infine la morte a soli quarantaquattro anni.

Fitzgerald muore il 21 dicembre 1940, convinto di essere sostanzialmente un fallito. Poco meno di un anno dopo i giapponesi attaccano Pearl Harbour e gli Stati Uniti entrano a piè pari nella Seconda guerra mondiale; un fatto storico apparentemente sconnesso, ma che in realtà avrà conseguenze importanti per Il grande Gatsby. Nel 1942 un gruppo di importanti case editrici americane, librai, scrittori, bibliotecari ecc., convinti di dover contribuire allo sforzo bellico, fonda il Council on Books in Wartime, un’organizzazione no-profit il cui scopo è fornire di buoni libri i soldati americani sparsi per il mondo a combattere gli eserciti e le flotte dell’Asse. Il Council doveva usare i libri come “armi nella guerra delle idee”; fare arrivare ai combattenti testi che diffondessero i valori americani e giustificassero la partecipazione alla guerra. Curiosamente tra i libri distribuiti ai soldati e marinai e aviatori americani c’era un romanzo come quello di Fitzgerald che presenta un’immagine tutt’altro che edificante degli Stati Uniti; un paese dove chi ha i soldi è intoccabile e chi vuole farli è pronto a tutto pur di arricchirsi; un paese di avvilente vuotezza morale; un paese che, come i personaggi del romanzo, sembra in un perenne stato di ubriachezza.

Eppure fu proprio la scelta del Council on Books in Wartime a far arrivare il libro nelle mani di tanti potenziali lettori: ne vennero stampate e distribuite oltre 150.000 copie. Non tutti gli americani in divisa si saranno innamorati di Jay Gatsby e di Daisy Buchanan (ben difficile innamorarsi di suo marito Tom), però molti scoprirono il romanzo. E la critica non lo aveva abbandonato: appena un anno dopo la morte dello scrittore, il suo compagno di università a Princeton e amico intimo Edmund Wilson – uno dei maggiori critici del Novecento – aveva pubblicato The Last Tycoon, ultimo romanzo incompiuto, che in Italia conosciamo come Gli ultimi fuochi, o L’amore dell’ultimo milionario in un omnibus che conteneva anche Il grande Gatsby. A partire da questa uscita postuma si assiste a una vera e propria Gatsby renaissance con la pubblicazione di numerosi articoli e saggi sul romanzo; e nel 1951 un professore di Cornell University, Arthur Mizener, pubblica una biografia di Fitzgerald, intitolata The Far Side of Paradise, che diventa un bestseller. Non siamo solamente alla canonizzazione dell’opera, ma alla nascita del mito dello scrittore stesso. Come si suol dire, il tempo è galantuomo, anche se il povero Francis Scott non poté godersi la sua santificazione, e soprattutto il raggiunto traguardo dei trenta milioni di copie vendute (cui vanno aggiunte 500.000 copie acquistate ogni anno nelle varie lingue, anche per effetto della fine dei diritti d’autore).

Ma dopo cent’anni, cosa abbiamo ancora da dire del romanzo in sé? O meglio, cos’ha ancora da dirci? Qualche considerazione vale la pena di farla, prendendola un po’ alla larga. Dovremmo riflettere un attimo su quell’anno, il 1925. Tanto per cominciare, solo tre anni prima erano uscite, a Parigi e Londra, due pietre miliari della letteratura del Novecento: Ulisse di James Joyce e La terra desolata di Thomas Stearns Eliot – entrambe intente a rinnovare, se non a rivoluzionare rispettivamente il romanzo e la poesia. Nel 1923 Eliot pubblicava “Ulisse, ordine e mito”, un saggio critico nel quale dichiarava perentoriamente finita la stagione del romanzo realistico ottocentesco, che cedeva il passo al metodo mitico usato dallo scrittore irlandese per tenere insieme i capitoli della sua narrazione destrutturata. Siamo nel bel mezzo dell’epoca delle avanguardie artistiche, letterarie, politiche, e ne fa parte anche il modernismo di lingua inglese, anche se, a differenza di futurismo cubismo dadaismo surrealismo, non ha manifesti programmatici, leader riconosciuti e dichiarazioni d’appartenenza. C’è comunque l’idea che bisogna rinnovare, cambiare, rigenerare, anche distruggendo il vecchio per far spazio al nuovo; Ezra Pound, probabilmente tra gli americani quello più vicino all’approccio movimentista delle avanguardie europee, intimava “make it new!”, come a dire, rifatelo nuovo. E quello che andava rifatto, come aveva argomentato Eliot (in buona compagnia, perché la pensava così anche Lukács nella sua Teoria del romanzo), era soprattutto il romanzo, troppo borghese, troppo scontato, troppo sfruttato.

La via presa da Joyce è quella della destrutturazione, della sperimentazione, della trasformazione del romanzo in un laboratorio letterario, con ciascun capitolo del suo magnum opus a mettere in atto un esperimento di scrittura. Ne risulta un libro tanto citato, tanto insegnato, ma – e diciamocelo! – non tanto letto; un writer’s book, un’opera per addetti ai lavori, che siano critici letterari, docenti accademici (o di liceo), oppure scrittori. Ma non era quella l’unica via percorribile; altri modernisti optano per una scelta meno radicale ma altrettanto difficile, e cioè scrivere narrazioni in apparenza convenzionali ma che nascondessero abissi di significato accessibili tramite simboli abilmente dissimulati. Potremmo dire che è il metodo mitico predicato da Eliot ispirato da Joyce, ma dissimulato. Ed è quello che applicherà nel 1926 un certo Ernest Hemingway nel suo primo romanzo, Fiesta: ci racconterà il mito del Re Pescatore (sottotesto fondamentale proprio della Terra desolata di Eliot) trasposto nella Parigi degli anni Venti, incarnato in un gruppo di espatriati americani che vivono alla giornata, esponenti di una generazione perduta. La loro vicenda si concluderà con un rituale semi-pagano, la corrida di Pamplona, sopravvivenza mitica in un mondo secolarizzato e svuotato: praticamente la versione in prosa romanzesca della Terra desolata di Eliot. E con questa mossa geniale, a Hemingway riesce di scrivere letteratura d’avanguardia (anche nel suo uso della prosa, nella sua paratassi asciutta e ritmata, nella sua visione cubista, del tutto diversa dalla scrittura vittoriana) ma in forma di best-seller – operazione che verrà ripetuta con ancor maggior successo quattro anni dopo con Addio alle armi.

Ecco, se Gatsby lo mettiamo nel contesto si capisce meglio cosa stava facendo Fitzgerald. Anche lui era stato colpito dal poemetto di Eliot e dalle idee del suo autore; anche lui avvertiva che si doveva rinnovare il romanzo. E anche lui non segue Joyce sulla via della sperimentazione senza compromessi; come Hemingway dopo di lui, scriverà un romanzo accessibile, che offre al lettore una trama, personaggi ben delineati, azione, ma con un poderoso sottotesto mitico – che è a ben vedere lo stesso della Terra desolata. Anzi, Fitzgerald la terra desolata ce la fa vedere: è quella valle di ceneri davanti alla quale i suoi personaggi passano in automobile per andare da West Egg, dove c’è la monumentale villa di Gatsby e quella dei Buchanan, a Manhattan. Waste in inglese è un aggettivo, reso nelle versioni italiane come “desolata” o “devastata”, ma anche un sostantivo che significa “rifiuti, immondizia”. Il mondo moderno, decaduto e desacralizzato, è agli occhi di Eliot una grande discarica culturale, dove ci sono solo macerie con le quali il poeta puntella la sua costruzione in versi; Fitzgerald letteralizza la metafora, la riporta al suo stato di vera discarica di veri rifiuti (oggi riconvertita nel parco di Flushing Meadows, dove si gioca la coppa Davis). Ma mantenendo sempre la sua valenza simbolica: quella discarica tra le ville signorili di Long Island e la brulicante metropoli newyorkese è una sorta di memento mori, e l’emblema di un disfacimento morale.

Ma non solo nella trama simbolica sta la carica innovativa del romanzo. La sua stessa architettura è modernista: ispirandosi a una geniale precorritrice, Emily Brontë, che nel suo Cime tempestose aveva affidato la narrazione a un personaggio secondario che della vicenda degli Earnshaw e dei Linton non sa nulla, Fitzgerald fa raccontare la storia a Nick Carraway, che non è né Gatsby, né Daisy, né Tom, insomma, che non è affatto il protagonista della vicenda – ricorda anche l’Ismaele di Melville (che non è il protagonista di Moby Dick) e il Marlow di Cuore di tenebra. L’io narrante, insomma, la voce che ci racconta non sa tutto, e non capisce tutto: narratore inaffidabile, decentrato, prodotto di quella rivoluzione copernicana che la Brontë aveva inaugurato troppo presto (e anche lei, come Fitzgerald, venne rivalutata post mortem, proprio in era modernista). Nick scopre pian piano chi è veramente Jay Gatsby, e quale folle idea lo guida, quella di invertire il tempo, di recuperare il suo amore perduto, un’idea folle – non a caso – come quella di un capitano americano intenzionato a vendicarsi del capodoglio albino che gli ha staccato una gamba. Anche Melville era stato un precursore sfortunato del modernismo, anche lui aveva voluto raccontare una storia di mare che avesse infiniti strati di significato nascosti sotto la superficie (come l’iceberg hemingwayano, d’altro canto). Gatsby ha qualcosa di Achab, è un eroe votato al fallimento, un eroe americano, senz’altro, con un cuore di tenebra e un sogno grandioso, splendido e irraggiungibile – un sogno americano di ricchezza e felicità, quella stessa felicità che dalle origini gli Stati Uniti si pongono come obiettivo politico (la trovate nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776, che proclama diritti inalienabili “life, liberty and the pursuit of happiness”).

La modernità del Grande Gatsby sta anche in altro. L’uso disinvolto di flashback che spezzano la linearità della storia; il taglio quasi cinematografico dei capitoli; il fatto che l’eroe della storia entri in scena non dall’inizio, ma a metà del terzo capitolo, dopo che su di lui si è detto di tutto; le due versioni parallele della vita del protagonista, quella che racconta Gatsby stesso e quella rivelata dal padre alla fine del romanzo. E in questa duplicità del personaggio principale sta un altro motivo di interesse del romanzo.

A ben vedere un’altra opera di Melville, ancor più sperimentale di Moby Dick, ancor più anomala, e forse per questo meno nota, ha non poco a che fare con Il grande Gatsby; mi riferisco a L’uomo di fiducia, anche tradotto (giustamente) come Il truffatore di fiducia e L’impostore, la storia di un imbroglione che s’imbarca su un battello a vapore e assume diverse identità, impegnandosi in una serie di truffe, in un vortice di simulazioni e travestimenti che ha dato filo da torcere agli interpreti (talché per alcuni il trasformista è il Diavolo mentre per altri è Dio – o entrambi). A ben vedere, anche Jimmy Gatz, figlio di un misero agricoltore del North Dakota, assume un’altra identità, trasformandosi nel raffinato Jay Gatsby, eroe di guerra, laureato a Oxford, dallo stile britannico, nascondendo così l’origine illegale della sua ricchezza, accumulata col contrabbando di alcolici nell’epoca del Proibizionismo. Il tema del falso serpeggia nel romanzo: lo ritroviamo in Jordan Baker, la bella golfista con cui Nick Carraway ha una storia, che è sospettata di aver imbrogliato in una gara; lo ritroviamo in Meyer Wolfshiem, il losco faccendiere ebreo socio di Gatsby, del quale si dice che ha truccato il campionato di baseball del 1919; ma lo ritroviamo anche nello stesso Gatsby, che per coprire Daisy, colpevole di un omicidio stradale, intende attribuirsene la colpa; e mettiamo nel mazzo anche Tom Buchanan, che ha una tresca con Myrtle, la moglie del meccanico locale, e che attribuisce la colpa dell’incidente a Gatsby per sviare la rabbia omicida del marito di Myrtle da Daisy. Tutti hanno qualcosa da nascondere, in questo romanzo, tutti imbrogliano, e Gatsby forse più di tutti.

Per questo Il grande Gatsby è la storia del sogno americano, che non coincide con la storia americana: in effetti è incentrato su una fiction, sulla creazione del personaggio Jay Gatsby, ideato (o forse sognato) da Jimmy Gatz. Insomma, a cent’anni dalla sua pubblicazione questo romanzo non sembra aver finito di raccontarci l’America, anche nella sua attuale versione post-verità; e adesso che è guidata da un miliardario specializzato in speculazioni immobiliari non sempre pulite, travestitosi da salvatore della patria, pronto a sparare balle di portata galattica, Il grande Gatsby sembra acquistare una nuova pregnanza, non proprio rassicurante. L’eroe che si inventa un’altra vita, il truffatore che cambia disinvoltamente identità, erede del mitico trickster che ben conoscevano i nativi americani, si è reincarnato nell’attuale presidente degli Stati Uniti. Alla fine della fiera, il romanzo di Fitzgerald lo apprezziamo di più adesso che siamo nel bel mezzo de Il grande Trump.