Dietro i palcoscenici

Gianni Minà, Storia di un boxeur latino, minimum fax, pp. 232, euro 16,00 stampa  

Una serie di incontri tra il giornalista e lo scrittore Fabio Stassi ha suggellato, nell’arco degli ultimi anni, quella che più che un’autobiografia, rettifica Gianni Minà nel congedarsi dal lettore, “somiglia a una scacchiera o a un album fotografico (…) dentro c’è la mia vita o almeno il senso di come ho cercato di vivere”. E forse non è un caso che il libro si apra con una foto di gruppo, a dir poco, storica, non fosse per la fama dei quattro amici che affiancano Minà in una sera romana del 1982: Sergio Leone, Robert De Niro, Muhammad Ali e Gabriel García Márquez. È l’epoca di Blitz (1981-1984), premiato e indimenticato – per chi ai tempi non era più in fasce – programma domenicale condotto su Rai 2 dal giornalista torinese (dopo ben diciassette anni di precariato, finalmente in pianta stabile alla Rai, occorre aggiungere.) In quello scatto è immortalato il senso (e la storia) di tutta una carriera, ognuno di quei volti incarna già una passione, uno smagliante tranche de vie.

Anni Cinquanta. L’amore travolgente e ricambiato per lo sport (ciclismo, calcio poi la boxe) regalo del padre, di Giovanni Pische, eroe di guerra e atleta, e di Antonio Ghirelli, direttore di Tuttosport, un “maestro di scrittura”. Mentori del ventenne freelance, curioso eppure paziente: “per comprendere un atleta, per prima cosa andavo a parlare con chi gli viveva vicino (…) soprattutto sapevo ascoltare”. Lezione numero uno. Nino Benvenuti e Giulio Rinaldi, “The Greatest” Ali. Poi Pietro Mennea, Maradona… La lista è interminabile. Atleti, amici, compagni. Minà, classe 1932, è schivo e discreto. Con Ali, la prima volta, sbaglia da professionista. Si rifarà con il documentario Ali. Una storia americana (1975). “Per me un giornalista è un detective della diversità (…) scredita l’idiozia di qualsiasi integralismo e di qualsiasi razzismo.” Lezione numero due.

Anni Sessanta. Sport e politica. Qualche giorno dopo il massacro nella piazza delle Tre Culture, Minà è a Città del Messico per le Olimpiadi del 1968. A sue spese, çela va sans dire, mangiando quesadillas per risparmiare. In compagnia del fedele team – operatore, fonico, assistente operatore ed elettricista – filma tutto dalla finestra di un monolocale messogli a disposizione dall’amico Salvador Lutteroth, “il patriarca della boxe messicana”. Filma il pugno chiuso di Tommie Smith, record dei 200 metri, realizza un’intervista con il campione, leggendaria come molte altre.

Gianni Minà Politica e musica. La bossa nova, l’“onda nuova”, nel 1968 travolge Roma e un documentarista già innamorato dell’America. Le loro “(…) dissonanze sembrano stonature. La loro musica è una consacrazione alla dissonanza (…)”: Vinícius De Moraes, Chico Buarque, Toquinho contrappuntano con note e parole le serate di un “cronista spiantato”, desafinado quanto basta per coglierne l’anima nei due documentari America Latina Pop e Folk e Que viva musica.

Ma la sua America, non danza solo sulle partiture di musicisti esuli e jazzisti eccentrici quali Dizzie Gillespie e Chet Baker. “La mia America è stata un continente di motel a poche lire (…) una terra di strade interminabili”: da Nord a Sud la vita di Minà è costellata di viaggi, poi diventati storie di scrittori dissidenti (in primis Luis Sepúlveda, “Lucho”, cui il libro è affettuosamente dedicato). Di uomini e donne – Hugo Chávez, Fidel Castro, il subcomandante Marcos, Rigoberta Menchú – icone di un continente, di un passato che non muore.

“Sono sempre stato attratto dalle quinte più che dalla scena. E credo che sia dietro il palcoscenico che un giornalista deve andare a ficcare il naso o ad aspettare la notizia.” Lezione numero tre. Le sue Interviste con la Storia non peccano della baldanzosa incompetenza di Oriana Fallaci; Minà non entra a gamba tesa nelle stanze del potere, non sfoggia mise militaresche. Garbo ed empatia sono già lezione di stile. Vecchia scuola. Disgraziatamente fuori moda. Come restare a bordo immagine, o negli spogliatoi dopo un match di boxe, invece che tra i vip sotto il ring.

Dopo la sua “uscita” dalla Rai (1996), sulle pagine del trimestrale Latinoamerica e tutti i Sud del mondo – di cui dal 1998 e per quindici anni è editore e direttore – Minà non ha smesso di dare voce, con sensibilità e impegno, al Sud America, ai suoi cantori e testimoni. Prima del disincanto che, fatale, artiglia i ricordi ma non la stoffa di un boxeur latino.