Il porto sepolto, qui commentato da Carlo Ossola seguendo un’antica fedeltà, è l’opera d’esordio di Giuseppe Ungaretti – questo volume tende a seguirne l’evoluzione secondo il progetto che stava a cuore al poeta. “Uomo di più patrie”, pensava di unire le sue prime poesie ai testi in francese pubblicati nella plaquette La Guerre. Lettere e testimonianze confermano l’intenzione, un libro in due lingue senza dubbio avrebbe unito Ungaretti a quei compagni di strada che si chiamano, al tempo delle avanguardie parigine, Apollinaire, Breton, Cendrars, Jacob… Ossola segue da par suo storia editoriale e storia critica, azione non facile se si tiene conto quanto il poeta di Alessandria sviluppasse, dall’inizio e per tutta la propria vita, continue varianti e continui ripensamenti. Tanto da diventare leggendarie tali azioni sui testi.
Rileggere oggi queste poesie alla luce della loro vigoria, del loro scavo carsico nella lingua lasciando da parte le “estenuazioni” del Decadentismo, può senza dubbio far levare gli scudi contro la morte quotidiana cui assistiamo. Attenuando lo stritolamento quotidiano con l’incedere “orientale” dei versi, quasi aforistico, così come in quei primi anni del Novecento si guardava all’haiku giapponese secondo una moda diffusa in certe riviste animate da curiosità linguistica. Il nomade Ungaretti varca il secolo con le svariate rielaborazioni che lo conducono a Allegria di naufragi, e in seguito all’Allegria e a Sentimento del tempo. Una continuità che procede a sbalzi, e novità metriche che portano dalla tradizione leopardiana con tutti i suoi interrogativi alla conflagrazione europea dei pensieri meditativi attraverso la sperimentazione.
Dai Calligrammi d’Apollinaire a Derniers Jours, tramite De Chirico Ungaretti attraversa gli spazi percorribili e i furori dello spazio desolato, prima bellico e poi immateriale. Ma Ossola fa notare come la gran parte del Porto sepolto rimane centrale in tutti i decenni successivi, al netto di varianti e ripubblicazioni. L’opera prima resta intatta, nessun testo verrà scartato dall’edizione definitiva mondadoriana dell’Allegria nel 1942.
Ungaretti si rivolge alle generazioni partendo dalla sua, multiforme come nessun’altra e sempre rivolta al mondo nonostante gli abissi bellici la costringano in un’epoca fonda “di trincea” pur ribellandosi lui a ogni costrizione. Eppure è il movimento della sua lingua a risalire la corrente, a riprendersi le particelle vitali all’interno del mondo controverso: anche nel porto “sepolto” può ritrovarsi la libertà, e la lingua ne è la sua più forte rivendicazione. Il nucleo “mitico” di tutta la poesia successiva di Ungà è qui.


