Han Kang / Opporsi a ogni atto che distrugge la vita

Han Kang, Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti, tr. di Lia Iovenitti e Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi, pp. 39, euro 6,00 stampa

Adelphi ha tradotto e pubblicato il discorso di accettazione del Premio Nobel per la Letteratura 2024 – seguito dal rituale Discorso del banchetto rivolto ai reali di Svezia – della scrittrice sudcoreana Han Kang (1970) che, sin dal titolo enigmatico e affascinante, interroga in profondità il nostro rapporto umano troppo umano con la lingua, il linguaggio e la narrazione. Un Nobel che le è stato assegnato per “la sua prosa poetica intensa che affronta i traumi storici e rivela la fragilità della vita umana”: fragilità e traumi che si possono dire – o non riuscire a dire – con la lingua e soprattutto con il linguaggio della scrittura letteraria.

Il classico espediente letterario del ritrovamento di un manoscritto con cui si apre il discorso è qui piegato a vicende autobiografiche: un quadernetto fatto a mano nel quale la decenne Kang aveva trascritto le sue poesie, custodito in una scatola quando nel 1980 la sua famiglia decide di traslocare da Gwangju, proprio nell’anno in cui ebbe luogo un terribile massacro (con oltre mille vittime) perpetrato dalla giunta militare sudcoreana di Chun Doo-hwan (1980-1988) che represse nel sangue le rivolte scoppiate a seguito dell’omicidio politico del presidente in carica Park Chung-hee e conseguente colpo di Stato.

Han studia e si avvicina con cautela ai fatti di Gwangju per la stesura del suo romanzo Atti umani (2014). Gli eventi fanno scaturire in lei due domande: “come avrei potuto abbracciare il mondo?” e “come possono gli esseri umani essere tanto violenti? E allo stesso tempo schierarsi contro tale implacabile violenza? Ma allora cosa significa appartenere a quella che chiamiamo razza umana?”. Nella morsa tra questi due interrogativi, il lavoro dell’immaginario di Han è preso dalla necessità etica di potersi dire – anche attraverso la scrittura letteraria – ancora umani dinanzi ad atti (dis)umani e de-umanizzanti. Per Han si tratta di “prestare” ai morti – sui quali si era meticolosamente e quasi ossessivamente documentata – “le sensazioni, le emozioni, la vita stessa che scorreva nel mio corpo”.

E così, il lavoro della scrittura, alla ricerca costante di una voce, consiste anche nel dar voce a persone sepolte e accendere la luce su storie silenziate. Il protagonista quindicenne Dong-ho (da cui il titolo originale coreano del romanzo: 소년이 온다, ovvero “Arriva il ragazzo”), uno dei personaggi che acquisisce voce e sguardo, “stende un telo bianco su ciascuna salma e accende una candela”, scrive Han, “fissando il cuore azzurrognolo della fiamma”. Dunque, fare luce e poi guardarla, la luce lugubre del presente di Gwangju che “torna incessantemente a noi”, essendo “Gwangju” il “nome comune” del conflitto atroce tra nobiltà d’animo e spietatezza umana.

Scrive Han a proposito della pubblicazione del libro nel 2014: «mi colpì molto il dolore che i lettori confessavano di aver provato leggendolo. Non potrei fare a meno di riflettere sul legame tra il mio dolore nello scriverlo e il loro nel leggerlo. Quale può esserne la ragione? Il nostro desiderio di credere negli esseri umani, e il senso di devastazione che ci coglie quando quella fiducia è scossa? Il desiderio di amare gli esseri umani, che ci strazia il cuore quando quell’amore viene infranto? È l’amore a generare la sofferenza, e certe sofferenze generano l’amore?» Così, il febbrile lavorìo di luci e d’ombre produce, in una terra di mezzo crepuscolare, quelle parole per dire e raccontare l’indicibile, “cercando nel contempo di mantenere la massima sobrietà”. E si tratta dello stesso procedimento messo in atto per la scrittura del successivo Non dico addio (2021) che metteva in forma di romanzo il terribile massacro dell’isola di Jeju avvenuto ad opera dell’esercito coreano dopo la fine della Seconda guerra mondiale (1948), quando un’insurrezione fu repressa nel sangue (si parla di morti nell’ordine delle decine di migliaia). Viene qui alla mente che tre delle quattro vincitrici del Nobel che hanno preceduto Han negli ultimi dieci anni siano scrittrici che hanno fatto dell’impegno o, meglio, della prosa intrisa di trauma e testimonianza, il loro focus letterario: dalla bielorussa Svjatlana Aleksievič (2015) “per la sua scrittura polifonica” come “monumento alla sofferenza e al coraggio del nostro tempo” alla polacca Olga Tokarczuk (2018) “per un’immaginazione narrativa” che “rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita”, fino alla francese Annie Ernaux (2022) molto nota al grande pubblico per la sua narrativa attenta alle classi lavoratrici e alle memorie individuali e collettive. Un po’ come se le scrittrici fossero capaci di trasfigurare attraverso la potenza dell’immaginario le testimonianze di un tempo, il nostro, inquieto, sconvolto, lacerato.

“Quanto dobbiamo amare per restare umani fino alla fine?”, si chiede Han Kang. Fino a che punto possono spingersi le nostre vendette e le nostre meschinità prima che la disumanità prenda definitivamente il sopravvento sull’umana empatia? – potremmo aggiungere. Forse, una (im)possibile risposta si trova proprio nella capacità di scrivere: che non è altro che l’esito più raffinato della più raffinata competenza umana: la lingua, “il filo che ci unisce”.