“Negli ultimi mesi del 1926 e nei primi del 1927 ho viaggiato nella Russia sovietica come inviato del quotidiano Forverts di New York. Ho visitato città e villaggi delle Repubbliche di Russia, Ucraina, Bielorussia e Crimea; ho visitato le colonie ebraiche, e ho fatto conoscenza, per quanto è stato possibile, con il loro nuovo modo di vivere”, senza l’intenzione, però, di “dare un giudizio su un Paese così immenso e così nuovo e contradditorio”.
Immersi come siamo negli eventi attuali, fa un effetto straniante leggere La nuova Russia di Israel Joshua Singer pubblicato nel 1928 e appena tradotto in prima edizione mondiale da Adelphi.
Dei quattro fratelli Singer – ebrei polacchi, tre scrittori, compreso il Nobel per la letteratura Isaac Bashevis e uno iperbigotto morto di fame deportato in qualche remoto luogo della Polonia – Israel Josha è il più scettico, come scrive Cataluccio nella postfazione al libro. E questo suo scetticismo, che non può che essere laico, dà il carattere al libro e ne è il filo conduttore.
Socialista ed ebreo (o viceversa), Singer va nel Paese dei soviet soprattutto perché interessato alle nuove condizioni di vita degli ebrei che risiedevano per lo più nelle città e nei paesini sperduti delle repubbliche sovietiche dell’Ucraina e della Bielorussia e sicuramente al suo sguardo acuto non sfugge niente di ciò che nel 1926 era ancora in bilico e che da lì a poco si sarebbe chiuso inesorabilmente. Il suo tono però è bonario e se segnala un pericolo o una possibilità regressiva o un eccesso di intento pedagogico, lo fa con simpatia, con il credito che si dà a ciò che è ancora bambino e un po’ ingenuo, nonostante sia passato attraverso la violenza aurorale di una rivoluzione. Una vita certamente difficile quella dei suoi ebrei allora ma ancora suscettibile ai suoi occhi di andar per altri versi e altre strade. A Singer pare di respirare la nuova aria e in effetti non ha difficoltà a riconoscere che per gli ebrei, sempre soggetti a pogrom, la vita è cambiata e che in URSS l’antisemitismo è messo al bando dalle nuove istituzioni. Dopo aver visitato tantissime colonie e comuni comuniste, Singer si spinge a dire che “Avanti così per altri vent’anni, e in Russia non esisterà più una questione ebraica”. Per l’intanto la strada resta in salita. Certo, l’Ucraina è disseminata di colonie e villaggi pieni di ebrei capaci e industriosi fino all’entusiasmo, fino a ieri disposti a tutto pur di dare un’istruzione ai figli, magari a emigrare in cerca di nuove possibilità, ma ora l’emigrazione è preclusa e per i giovani è difficile trovare un lavoro manuale o operaio.
E ancora, Singer in Mosca riconosce la madre amorevole dei bambini emarginati e dei figli degli operai. Gli asili, i ricoveri, le scuole per l’infanzia, il diritto allo studio stanno lì a dimostrarlo, ma Mosca è anche la matrigna dei besprizornye, di migliaia e migliaia di bambini “randagi, di bambini che vanno in giro nudi o mezzi nudi, scalzi nelle strade gelate, bambini ai quali ogni passo costa fatica, vestiti solo di stracci e brandelli, con i capelli sporchi e gli occhi cisposi, bambini luridi e consunti, afflitti da malattie veneree. Per coprirsi si infilano in un sacco e dormono tra cumuli di spazzatura, o dentro barili vuoti, o sui gradini di una scala o nelle tubature delle fogne; allungano le mani verso i passanti, li afferrano per il cappotto o per la gonna, nel tentativo di cavarne qualcosa, e vagano in branchi da un luogo all’altro, come topi erranti, e lavorano di coltello come assassini, e non hanno nemmeno tredici anni”. Situazione terribile che viene riconosciuta da chiunque in quegli anni visitasse il Paese dei soviet.
La parte più divertente del reportage è il capitolo dedicato a “Il santo Vladimir” con evidente riferimento a Lenin che, morto da due anni, compare in effige in ogni luogo dell’immenso Paese. Singer scrive del culto per “quest’ometto di bassa statura con i lineamenti russo-mongolici e la chierica, che ti osserva con occhi penetranti” da ogni dove, nelle città, nelle fabbriche, riprodotto con ogni tecnica ed arte, e negli ugolki Lenina (gli angoli di Lenin) in ogni casa. Aggiunge Singer che “La Torah di Lenin verrà insegnata con la stessa sacralità con la quale gli ebrei un tempo insegnavano la Torah. Gli ebrei comunisti vogliono dimostrare di non essere un gruppo etnico, e a riprova portano brani di Lenin. Anche gli eretici convinti che gli ebrei costituiscano un gruppo etnico selezionano un brano dalla Torah di Lenin per suffragare la propria opinione…”
Un nome, quello di Lenin, ancora oggi divisivo, che dice tutto e il contrario di tutto. Così Putin lo tira in ballo per giustificare la sua guerra dicendo che l’Ucraina è stata una invenzione di Lenin, dall’altra parte molti di sinistra, contrari all’invasione, si sono appellati al principio leninista dell’autodeterminazione dei popoli e delle nazioni. Che poi era lo stesso Lenin – come scrive Singer – che col piglio del grande politico e del grande statista, senza timore di contraddirsi, poco prima di morire passava dal comunismo di guerra alla NEP (Nuova Politica Economica) e alla nuova parola d’ordine: arricchitevi. Così i visitatori dell’epoca non potevano non rilevare la formazione in URSS di una nuova borghesia. Ne scrive Singer, ma ne hanno scritto Joseph Roth nel suo Viaggio in Russia (Adelphi) e Alfred Düblin. Ne accenna anche Walter Benjamin che visitò la Russia in quegli stessi anni. Ne uscirà il libro Immagini di città (Einaudi) in cui lo scrittore rielabora in modo mirabile gli appunti del suo privatissimo e dolente Diario moscovita (Einaudi). Certo la realtà che incontra a Mosca non indurrà Benjamin a iscriversi al Partito comunista come era nelle sue intenzioni all’inizio del viaggio mentre, come scriverà a Martin Buber dopo il viaggio a Mosca, nella descrizione della città espungerà ogni teoria e ogni prognostica e finanche ogni giudizio.