Ken Follett è una certezza. I suoi romanzi storici escono puntuali in autunno, misurano intorno alle 700/800 pagine, ricostruiscono un pezzo di storia per lo più medioevale, e lo raccontano con abilità, competenza e passione. Spesso, come anche in questo Il cerchio dei giorni, protagoniste sono le grandi opere dell’ingegno umano, realizzate per lo più da un uomo solo che ha delle particolari capacità oltre alla tenacia, al coraggio, alla convinzione delle proprie idee.
Stonehenge è il punto di partenza perfetto. Nessuno sa quando, perché, da chi fu costruito il grande monumento di pietra che resiste tuttora. Follett immagina allora che in un luogo imprecisato della Gran Bretagna, tra colline e pianura, ci sia un tempio gestito da un gruppo di sacerdotesse, e che la funzione di questo tempio sia quella di contare. Contare i giorni, contare gli anni. Siamo nel medioevo, le società sono fatte di coltivatori o di pastori, ma nessuno sa contare oltre le dita di una mano. Le capacità di astrazione sono molto poco sviluppate. La lotta per la sopravvivenza è durissima, e anche quando si raggiunge un certo benessere, questo significa cibo in abbondanza, un tetto sopra la testa e dei figli che crescono sani. Non molto di più. Uno strumento per tener conto dei giorni, delle settimane e degli anni è prezioso. Ma il tempio è fatto di legno, brucia una prima volta e viene ricostruito più solido e più consistente ma sempre in legno. Brucia una seconda volta. A questo punto la giovane Joia, diventata sacerdotessa per la sua abilità nel tessere relazioni e convincere le persone a seguirla, decide di ricostruire il tempio con le pietre. Pietre grandi come quelle necessarie non ci sono nei dintorni, bisogna andarle a prendere in una valle che dista diversi giorni di cammino. E sono pietre molto più grandi di un uomo, pietre che tutti ritengono impossibili da spostare. Per fortuna c’è Seft, un giovane e abile cavatore di selce che si è stabilito nella comunità di pastori che vive intorno al tempio, e ha dimostrato grandi doti nel lavorare il legno e soprattutto nel trovare soluzioni impensate a problemi che si ritenevano insolubili. Il carisma di Joia e l’abilità di Seft renderanno possibile il progetto visionario di un monumento di pietre enormi, che potrà durare per sempre.
Naturalmente l’epopea della costruzione del tempio è teatro di una grande lotta tra il bene e il male, che è sempre uno dei temi immancabili nei romanzi di Follett. La comunità dei pastori, dove si trova il tempio, è sostanzialmente pacifica. È anche piuttosto benestante, gestita da un gruppo di anziani saggi, vi si lavora con calma. Mentre più sotto, nella pianura, la comunità dei coltivatori è bellicosa e arrabbiata. Le donne non hanno voce in capitolo e devono obbedire agli uomini. Il capo è un uomo violento e poco intelligente, che comanda grazie alla prepotenza e all’assenza di scrupoli. Il lavoro è sfiancante e senza soste. C’è una terza comunità, il popolo dei boschi, che vive una vita primitiva e semplice, cibandosi di quel che trova e riparandosi in capanne precarie. I rapporti tra le tre comunità sono tesi ma civili, finché una lunga e persistente siccità mette a dura prova le possibilità di sopravvivenza di tutti. Superamento dei confini, sabotaggi, incendi, uccisioni cominciano a verificarsi sempre più spesso mentre il bestiame muore e i campi sono arsi e senza frutti. L’impresa della costruzione del tempo di pietra sembra particolarmente impossibile, ma è anche vero che proprio nei momenti tragici bisogna trovare un progetto, un piano, una visione che aiuti a immaginare un futuro, proprio quando il futuro sembra non poterci essere.
Come sempre nei romanzi di Follett il personaggio femminile è quello più forte e significativo. Joia è una donna determinata, intelligente, carismatica. Cresce con una madre equilibrata e saggia che fa parte del gruppo degli anziani e che la sostiene e la aiuta a coltivare la sua diversità e peculiarità. Il contraltare maschile è un falegname/ingegnere ante litteram, capace di immaginare e sperimentare soluzioni che oggi definiremmo tecnologiche e che, per la prima volta, permettono alla società degli uomini di costruire qualcosa di più grande di loro. C’è dunque qualcosa di epico, nell’impresa di costruzione del tempio ma anche nel racconto, nei tempi, nello spazio, nelle attese, nelle sorprese della narrazione. C’è certamente una visione del mondo estremamente individualista, di quell’individualismo tipicamente occidentale che tende ad anteporre l’individuo alla comunità. In realtà sappiamo che le grandi scoperte, le grandi invenzioni, le grandi imprese non sono mai un’opera individuale. Se un individuo emerge e poi diventa il titolare della scoperta o dell’invenzione, è perché nella nostra narrazione abbiamo bisogno di eroi e di grandezza. Ma tutte le invenzioni e le scoperte sono frutto di un pensiero e di un lavoro collettivo, di moltissimi tentativi ed errori che a un certo momento culminano nella soluzione. Il fortunato o abile che si trova in quel culmine passa alla storia e tutti quelli che gli hanno preparato il terreno restano nell’oblio. Ma è importante che si sappia come stanno davvero le cose. E certo stiamo parlando di un romanzo e non di un libro di storia, e Follett dà conto ampiamente dell’importanza della società e della vita comunitaria. Resta il fatto che in questo momento storico così complicato e fragile, così teso e scivoloso, questa scelta mi sembra mettere in evidenza un elemento del nostro tempo sul quale dovremmo riflettere e prestare attenzione. Dunque, anche quello che si definisce un bestseller (con una punta di scorno) e che è una buona lettura di intrattenimento ci può far vedere qualcosa che sta nascosto ma è importante.


