La fiction è un’allucinazione vissuta consensualmente?

Da De Lillo a LeTellier, sempre più spesso la fiction letteraria prende in prestito luoghi e situazioni della fantascienza classica. Come la SF, la struttura postmoderna del testo può contrapporre due mondi, senza necessariamente adottare i modelli di genere.

Postmodern fiction presents its readers with a challenge: instead of enjoying it passively, they have to work to understand it, to question their own response, and to examine their views about what fiction is. Yet accepting this challenge is what makes postmodern writing so pleasurable to read and rewarding to study.
Bran Nicol, The Cambridge introduction to Postmodern Fiction, 2009 [1]

Mi è capitato ultimamente di fare qualche incursione sulla bacheca di gruppi social di fan di fantascienza, i cui membri si lamentavano del fatto che sempre più autori mainstream (così gli appassionati di un genere letterario definiscono la grande corrente della letteratura che non si può etichettare in alcun genere) utilizzano tópoi classici della science fiction senza riconoscerlo esplicitamente — intendendo così stigmatizzare un “furto”, secondo il principio che puoi sì appropriarti di stereotipi FS o temi futuribili, però devi riconoscere esplicitamente che scrivi fantascienza.

Quali autori hanno provocato questa amarezza nei fans? Solo tra le ultime uscite editoriali, Don DeLillo (Il silenzio, Einaudi 2021), Ian McEwan (Macchine come me, Einaudi 2019), Kazuo Ishiguro (Klara e il sole, Einaudi 2019),  Hervé LeTellier (L’anomalia, LA Nave di teseo, 2021). I tópoi rubati sono evidenti: il collasso della tecnologia, gli androidi, l’ucronia, le realtà alternative.

Poco importa che simili “furti” avvengano da prima della metà del Novecento, a testimoniare che definire i contorni di un genere è come svuotare il mare con un ditale: i fan si sentono defraudati in quanto popolo eletto, un’avanguardia di iniziati che da tempo ha la ragione in pugno e che ora vede affermarsi le proprie idee nel mainstream, ma senza pubblico riconoscimento dei precursori.

Questo equivoco nasce da un errore molto comune: la convinzione che la definizione di un genere letterario sia questione di contenuti.

È una storia d’amore? Mettiamo il timbro romance, o “rosa” come si diceva anni fa. Omicidio con indagine? Giallo! Ci sono azione, suspense, tensione? È un thriller. Ambientazione nel futuro o su un altro pianeta? Fantascienza. Se il criterio preminente fosse questo, il risultato sarebbe che un classificatore automatico inserirebbe Il nome della rosa di Eco nel giallo, Storia dell’assedio di Lisbona di Saramago nel romance, e di conseguenza Il racconto dell’ancella di Atwood  nella fantascienza — quest’ultima cosa naturalmente sostenuta dai fan.

In realtà la spiegazione di questo passaggio di temi è più semplice di quanto si possa pensare. Per chiarirci le idee conviene ricorrere a chi si occupa di science fiction dal punto di vista critico (ma i fan leggono molti vecchi Urania trovati sulle bancarelle e quasi nessun saggio), come per esempio Brian McHale, che in Postmodernist Fiction individua nella fantascienza il genere ontologico par excellence (mentre il poliziesco o giallo è l’epistemologico per eccellenza), e in quanto tale fonte naturale di materiali e modelli per la letteratura postmoderna.

Per McHale, il tardo Novecento ha visto una graduale “fantascientificazione del postmoderno”, con naturale trasferimenti di temi e tópoi dall’una all’altro. Le ragioni sono principalmente due.

  1. la science fiction offre un’alternativa al realismo e anche una critica allo stesso — e sappiamo che il postmoderno è nato come alternativa al modernismo, sia alla narrativa realista che alle sue rappresentazioni di “mondi” letterari;
  2. la struttura del testo postmoderno è spesso costruita intorno alla contrapposizione tra due mondi, cosa che nella fantascienza avviene letteralmente quando racconta, per esempio, di altri pianeti.

Ciò è facilmente comprensibile nella SF, meno nel postmoderno; un esempio forse non troppo conosciuto (purtroppo) è Lanark (1982) dello scozzese Alasdair Gray, tradotto in Italia da Safarà Editore con prefazione di Jeff VanderMeer, il cui protagonista si muove tra due universi paralleli, la Glasgow degli anni Ottanta e la sconfortante Unthank che ne è lo specchio deformante. Anche in Contro il giorno (2006) di Thomas Pynchon abbiamo una contrapposizione Terra/Antiterra.

Un esempio dello stesso tipo nella science fiction, senza ricorrere a altri mondi, è quello del cyberpunk: un sottogenere che si fonda su una contrapposizione letteraria di carattere postmoderno, come spiega Bran Nicol in The Cambridge introduction to Postmodern Fiction (2009). Quest’ultimo concetto è assolutamente meno intuitivo, ma di sicuro interessante.

Nicol sostiene che il classico cyberpunk, già a partire da Neuromante, era un sottogenere totalmente in accordo con la “condizione postmoderna”. Malgrado un sentimento prevalente che oggi tende a individuare nel cyberpunk un precursore del distopico, in realtà una profonda differenza separa lo sprawl di Gibson da opere come 1984 di Orwell o Il racconto dell’ancella: a differenza di queste ultime, il cyberpunk non contiene quelle che possiamo definire “lezioni storiche”, non vuole cioè mettere in guardia da un futuro di oppressione e totalitarismo. Due elementi invece spingono il cyberpunk verso il postmoderno (dal momento che è in atto una contemporanea “postmodernizzazione della SF”):

  1. il recupero di modelli da sottogeneri estranei alla fantascienza, come lo hard boiled, il western e perfino, a ben vedere, l’adventure game; e come sappiamo il pastiche è tra i caratteri principali del postmoderno;
  2. il carattere metanarrativo del ciberspazio, metafora dell’esperienza della fiction: pensiamo per esempio all’ubiquità dei personaggi nella realtà virtuale condivisa, alla possibilità entrare in quel mondo per interposta persona (l’avatar come il protagonista di un romanzo, in cui il lettore s’identifica), etc.

Di conseguenza, la fiction sarebbe esattamente “un’allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legali”, proprio come la definizione del cyberspazio presente in Neuromante. Il titolo originale poi, Neuromancer, è sì un calco linguistico su “negromante”, ma può anche essere inteso come “new romancer”, cioè nuovo romanziere, lo scrittore che si cimenta in una narrativa nuova.

Aggiungerò infine che nel Manifesto cyborg (1985) Donna Haraway sottolinea il ruolo dell’ibrido umano-cibernetico nella destrutturazione della linea di pensiero occidentale che dall’Illuminismo ha condotto fino al Realismo: esempi (non dichiarati) di cyborg sono presenti nel postmoderno almeno dal 1963, con l’androide SHROUD in V. di Thomas Pynchon, autore che ha attinto a piene mani dagli stereotipi della science-fiction — altro elemento che indica come l’insieme degli elementi della fantascienza e l’insieme degli elementi del postmoderno abbiano un’intersezione comune.

Questa è la ragione per cui sempre più autori fanno uso di quelli che alcuni considerano tópoi SF senza “dichiararlo”: perché dal genere letterario sono passati all’immaginario generale grazie al postmoderno, e soprattutto perché definire un genere a partire dai temi è un errore che non porta da nessuna parte.

Viene voglia dunque di recuperare la lapidaria definizione che Norman Spinrad tirò fuori per provocazione, “Fantascienza è tutto ciò che viene pubblicato sotto il nome di fantascienza”, per riconoscere che non era poi una boutade.

Più corretto sarebbe definire un genere letterario sulla base non dei contenuti, ma di modelli stilistici — e un serio studio statistico su modelli di scrittura nei romanzi di fantascienza sarebbe auspicabile. Ad esempio, modelli stilistici del noir e del giallo d’indagine sono l’investigatore privato “tenero dal cuore d’oro”, in certo romance la protagonista lacerata dell’attrazione per due uomini diversi, nel post-catastrofico il “tutti contro tutti” che in realtà è contrario al comportamento degli esseri umani reali in situazioni di crisi, e via dicendo.

E nella science fiction? 

Mi limito a esporre un esempio che ha generato confusione e perplessità nei lettori di fantascienza proprio perché rifugge gli stereotipi strutturali/stilistici del genere.

La statunitense Maureen McHugh è autrice di un magnifico romanzo, Angeli di seta (China Mountain Zhang, 1992), scritto però con il proposito di trasgredire i tópoi della science fiction anglosassone, considerato che il protagonista non riesce a cambiare le condizioni di ingiustizia del mondo futuro in cui è ambientato (Zhang Zhongshan è un giovane omosessuale in una Cina comunista del XXII secolo che domina l’economia mondiale dopo una crisi congiunturale negli USA).

Così l’autrice sintetizza l’accoglienza di certi lettori:

“Se Zhang non è determinante per abbattere il governo socialista piuttosto maldestro sotto il quale vive, e non opererà cambiamenti politici drammatici affinché quel governo inizi a prendere un po’ più sul serio i diritti degli omosessuali, cosa ci sta a fare?” [“L’anti-romanzo SF”, Maureen McHugh, discorso alla Philadelphia SF Society]

Eh sì, perché il primo comandamento della science fiction, e il suo principale modello strutturale, è massimalista: il mondo del racconto dev’essere cambiato dall’azione — ed è questa la ragione per cui l’ambientazione risulta l’elemento più importante nella progettazione di un’opera di fantascienza.

Ed è anche la ragione per cui una buona parte delle potenzialità di conoscenza che il genere potrebbe offrire gli sono precluse, forse per sempre.

[1] “La narrativa postmoderna presenta ai suoi lettori una sfida: invece di godersela passivamente, devono lavorare per capirla, mettere in discussione la propria risposta ed esaminare le proprie opinioni su cosa sia la narrativa. Tuttavia, accettare questa sfida è ciò che rende la scrittura postmoderna così piacevole da leggere e gratificante da studiare.”