Kurt Vonnegut / La letteratura come atto di un estremista

Kurt Vonnegut, Tutti i racconti, Bompiani, pp. 1438, euro 38,00 stampa, euro 19,99 ebook

Nella difficile arte della narrativa breve, Kurt Vonnegut lampantemente primeggia. Questa è la prima considerazione che sorge spontanea nel leggere la nuova pubblicazione di Bompiani, Tutti i racconti, un tomo di 1426 pagine che raccoglie l’intera produzione di short stories di un autore molto amato anche in Italia. Si tratta senza dubbio di un evento editoriale, di un volume destinato a diventare un riferimento imprescindibile nel canone del grande scrittore statunitense, testimonianza del lungo apprendistato letterario che lo portò a padroneggiare l’arte di scrivere racconti.

La corposa raccolta è stata curata da due amici di antica data di Vonnegut, il critico letterario Jerome Klinkowitz e lo scrittore, giornalista e sceneggiatore Dan Wakefield, che l’hanno corredata di un’introduzione e due brevi saggi molto acuti. Organizzare una tale mole ponderosa, scritti apparsi in volumi o su giornali nel corso della vita, postumi e inediti conservati alla Lilly Library dell’Università dell’Indiana è stato un impegno non da poco, che i curatori hanno portato avanti insieme all’esecutore testamentario di Vonnegut, Donald Farber, e facendo tesoro dell’indefesso lavoro della prima moglie dello scrittore, Jane Cox, che in anni lontani archiviò meticolosamente le short stories pubblicate dal marito, anche quelle inedite, che sono più della metà. Siamo insomma davanti ad un’autentica miniera, per lo studioso come per il lettore appassionato.

Il materiale è stato suddiviso secondo l’argomento, in otto sezioni, precedute da un’introduzione critica: Guerra, Donne, Scienza, Amore, Etica del lavoro contro fama e fortuna, Comportamento umano, Il Direttore della banda, Il futuro. Scelta forse opinabile, poiché molti racconti potrebbero figurare contemporaneamente in gruppi diversi, ma che intende guidare il lettore nel percorso di lettura.

Molti di questi racconti furono pubblicati, a partire dal 1950 e lungo tutto quel decennio, su popolari riviste patinate del tempo, quali The Saturday Evening Post, Collier’s, Cosmopolitan e altre. Il che ne spiega i contenuti, il registro linguistico, un certo andamento moralistico. Ecco allora i temi del matrimonio e della famiglia, delle donne, tranches de vie della celebrità di turno e dell’everyman americano, la Guerra fredda con le sue paure, la riflessione su un’economia sempre più feroce e pervasiva, le suadenti ma inquietanti promesse di una scienza e di una tecnologia che minacciano di fagocitare l’elemento umano. Vonnegut mette in scena sogni e incubi della borghesia statunitense, e le sue storie, caratterizzate dal magistrale intreccio, dal sapiente uso dei classici rovesciamenti di prospettiva e dai finali a sorpresa, non sono mai banalmente consolatorie. La vena moraleggiante che le attraversa, comune a molti scrittori del periodo, pur con qualche eccesso di sentimentalismo svela l’ipocrisia su cui è fondata la società, di cui vengono descritti con sguardo penetrante costumi, speranze, illusioni, in una sottile ma pervicace critica al suo ethos, ponendo l’attenzione sulle devastanti conseguenze del cosiddetto “sogno americano”, vero obiettivo dell’humor tagliente dello scrittore. L’ambientazione è quindi quella dell’Anytown, tipizzazione di una qualunque cittadina di provincia statunitense, come la mitica North Crowford, o di inquietanti megalopoli del futuro, teatro di personaggi che si trovano a fronteggiare eventi che mandano in frantumi il loro mondo illusorio, e soprattutto di diseredati, di un’umanità di perdenti ritratti con grande empatia, le cui vicende sono spesso narrate dalla voce umanissima di commessi viaggiatori, piazzisti di finestre, onesti lavoratori, che rappresentano, come nel coro del dramma greco, la comunità, forse la vera protagonista dell’arte di Vonnegut. Una comunità colta nel punto di disgregazione, altro segno della grande modernità dello scrittore di Indianapolis.

La critica sociale è veicolata con un registro linguistico che fa della semplicità espressiva un marchio di fabbrica, conquistando il lettore con l’efficacia d’un linguaggio a tratti popolaresco che scavalca la rarefazione del Modernismo, caratteristica di buona parte della narrativa anglosassone della prima metà del Ventesimo secolo, e si ricollega alla tradizione di Mark Twain, con il quale Vonnegut condivide anche una genuina vis comica, forse meno caustica ma non meno trascinante. Dunque, una prosa limpida e mossa, perfettamente resa dal traduttore, Vincenzo Mantovani, che dà vita a racconti un tempo definiti edificanti, ma anche mordacemente distopici, pervasi dalla stessa limpidezza morale che permea i suoi romanzi: non sono molti gli scrittori che possono vantare una tale coerenza e fedeltà alle proprie convinzioni. Perché in tutta la sua opera, narrativa e saggistica, Vonnegut si è sempre sforzato di instillare un po’ di buonsenso in una specie violenta e irragionevole qual è la nostra, un lavoro tenace condotto per oltre mezzo secolo.

Per quanto, talvolta, si abbia la sensazione che queste storie giungano da un’epoca remota, dipingendo un pittoresco affresco di “come eravamo” (in tal senso, forse quelle più datate sono le storie d’amore e sulle donne, anche se vi compaiono due autentiche chicche, “Città” e “Spegniti, breve candela”), a ben vedere esse ci parlano dell’oggi, di questa epoca frantumata e sfilacciata, della nostra umanità declinante. Perché Vonnegut è sinceramente convinto che l’essere umano potrà salvarsi dall’estinzione soltanto se saprà coltivare i valori della solidarietà, dell’altruismo, del rispetto reciproco, se saprà recuperare e ravvivare quegli ideali umanistici che hanno caratterizzato la sua civiltà: solo così potrà evitare le spinte autodistruttive che nella guerra trovano la più grande realizzazione. Egli, non dimentichiamolo, è sempre stato un indomito pacifista, anche in tempi in cui il pacifismo era considerato una sorta di tradimento.

Non a caso i racconti sulla guerra sono tra i più intensi e riusciti. Come nei romanzi, questa autentica maledizione della specie umana viene affrontata in modo indiretto, più che le azioni si descrivono le sue terrificanti conseguenze, come nel memorabile “Tutti i cavalli del re”, raffinatissima metafora dell’arte del conflitto e della psicologia belligerante, o in “Missili con equipaggio”, dove l’accorato sentimento di perdita e di dolore di due padri, uno sovietico l’altro statunitense, che hanno perso i rispettivi figli, trovano un comune terreno umano che cancella ogni barriera, ogni divisione ideologica, che scioglie il gelo della tecnologia asservita alla guerra. O ancora operando inaspettati capovolgimenti di prospettiva, come nello struggente “D.P.” e in “La scrivania del comandante”, in cui gli occupanti statunitensi umiliano e vessano i cittadini della nazione sconfitta.

Vi sono poi i racconti che risuonano come un grido contro l’irreggimentazione delle mega-aziende, uno dei grandi pericoli che sempre più si andavano concretizzando negli Stati Unit degli anni Cinquanta, su cui si appuntavano gli strali dell’arte e della nascente sociologia. Ben rappresentativo in tal senso è “Il cervo nella fabbrica”, la cui scena conclusiva drammatizza la scelta tra la sicurezza che può dare una grande azienda o la ribellione contro il completo asservimento.

Naturalmente, vi sono i racconti di science fiction, una fantascienza che, come sempre nel nostro autore, privilegia la fantasia più che la scienza in sé, ora giocosa, molto più spesso sinistra, caratterizzata da un atteggiamento disincantato se non apertamente pessimista verso il progresso tecnologico, nelle cui spire si discernono le consuete tare del comportamento umano. Tra essi giganteggiano i celebri “Harrison Bergeron”, “SREO0SRE”, lo shakesperiano “Domani e domani e domani”, che prefigurano il futuro distopico del genere umano che apparentemente ha sconfitto i mali che l’affiggono, ma sacrificando la propria umanità. Qui Vonnegut abbandona l’abituale struttura narrativa, costruita sull’oscillazione dalla disperazione alla speranza e viceversa, tratteggiando sino alle estreme conseguenze una crudissima realtà.

In definitiva, coglie nel segno Dave Eggers quando nella sua prefazione afferma che i racconti di Vonnegut, letti oggi, suonano come l’atto di un estremista che si assume la responsabilità di dire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Sì, un estremista. come sempre è l’autentico artista.