Cinquant’anni fa cadeva, o veniva liberata, quella città che un tempo si chiamava Saigon e oggi invece Ho Chi Minh. Il doppio nome mi sembra un emblema della memoria divisa dei vietnamiti, ben illustrata da Giacomo Traina in Riflessi di guerra: Storia e antirealismo nella narrativa di Viet Thanh Nguyen (Ombre Corte): per chi governa il Vietnam oggi, e chi ci vive, nel 1975 Saigon fu liberata da un governo corrotto e oppressivo e giustamente rinominata città di Ho Chi Minh, in onore dell’uomo che guidò l’eroica guerra di riunificazione del paese; per chi invece viveva nel Vietnam del Sud e oggi fa parte del milione e passa di vietnamiti che vivono all’estero (moltissimi dei quali negli Stati Uniti), quel giorno Saigon cadde sotto il dominio degli invasori comunisti del nord, pilotati da Mosca. Al confronto i problemi che abbiamo noi con la memoria della Seconda guerra mondiale sono una barzelletta.
Certo, quando vedo le foto di quella che per me è sempre Saigon, con i negozi di Fendi e uno sciamare di gente su scooter di produzione giapponese, mi dico che il Vietnam di oggi non è proprio quello che avevano in mente zio Ho e il generale Giap, per quanto i comunisti siano ancora al governo – ma sono comunisti del XXI secolo, più sullo stile cinese di oggi (“arricchire è glorioso”) che su quello spartano e guerriero dei tempi della sporca guerra, quando Vietcong ed esercito del Nord Vietnam se le davano di santa ragione con gli americani e i sudvietnamiti (affiancati anche dai ferocissimi mercenari coreani, gli unici che mettevano veramente paura ai combattenti comunisti). Però gli anniversari sono anniversari, e per questo, dopo aver parlato dell’opera prima di Michael Herr, oggi riproponiamo il romanzo di esordio di un altro scrittore del Vietnam, anche lui diventato celebre più grazie a un film che alla sua produzione letteraria. Entra in scena il marine Gustav Hasford, autore di The Short-Timers, pubblicato nel 1979 dopo faticosa gestazione; il suo autore ci lavorò per ben sette anni, passando attraverso più di venti stesure successive.
Da noi il romanzo esce ben otto anni dopo, per i tipi di Bompiani, tradotto nientemeno che da Pier Francesco Paolini; il titolo italiano è Nato per uccidere. Paolini era scrittore, ma soprattutto ha volto in italiano una serie impressionante di autori di lingua inglese, tra cui Thomas Pynchon, Philip Roth, Charles Dickens, Anthony Burgess e Kurt Vonnegut. Che una delle majors dell’editoria si sia mobilitata per uno romanziere americano fino ad allora ignorato, affidando la traduzione a uno dei più prestigiosi professionisti, si spiega facilmente se si considera che proprio nel 1987 esce nelle sale cinematografiche Full Metal Jacket, regia di sapete bene chi, basato si può dire al 90% sul romanzo di Hasford, che lavorò anche alla sceneggiatura del film.
Anche chi non l’ha vista tutta conosce quella pellicola per via degli infiniti furtarelli digitali di scene dell’addestramento dei Marines circolate sul web e sui social, con lo spietato sergente Hartman che vessa e insulta le reclute con una serie di oscenità sempre più barocche, quasi tutte estratte dal romanzo di Hasford. Mi chiedo invece quanti abbiano letto il libro dal quale scaturì il film; non credo siano moltissimi, perché l’opera di Kubrick ha praticamente sepolto l’uomo che la ispirò, e che diede un notevole contributo alla sua realizzazione. Tenete conto che la maggior parte delle battute recitate da Matthew Modine sono prese parola per parola da Nato per uccidere, lì proferite dai suoi personaggi o dalla voce dell’io narrante, il marine Joker, anche se non nell’ordine in cui vi compaiono.
Come si spiega tutto ciò? Tenterò di dare una risposta, e per far questo sarà necessario ricostruire la storia del romanzo e del suo autore. Per cominciare, va detto che Hasford (battezzato Jerry Gustave, ma si firmava Gustav, per gli amici Gus) era nato in Alabama, in quel Sud degli Stati Uniti che grosso modo equivale al nostro mezzogiorno, ma senza le tante antichità – un posto dove, come commentava un mio conoscente che ci ha insegnato, “imparano prima a sparare che a leggere e scrivere”. Gus veniva da una famiglia operaia, in origine erano agricoltori, ma suo padre era stato costretto ad andare in fabbrica perché la terra non rendeva più. Fin da ragazzo accanito lettore, Hasford collabora al giornalino della sua scuola; pur di non restare nella sua nativa Russellville, nella provincia più provinciale, nel 1966 si arruola, come tanti southerner, nell’United States Marine Corps, specializzandosi come giornalista militare.
Ora va chiarito un aspetto cruciale della faccenda. Era un giornalista di guerra anche Michael Herr, ma restava pur sempre un civile; mentre Hasford era prima un marine, e poi un giornalista. Gli articoli che scrisse sotto le armi venivano pubblicati su riviste delle forze armate americane, e come potete immaginare dovevano obbligatoriamente dare un’immagine positiva dei soldati americani e dei loro comandanti, e ispirare ottimismo e fiducia nella vittoria finale contro le orde comuniste del Nord Vietnam. Non solo: se Hasford accompagnava una squadra di marine in un’operazione militare, e la situazione diventava critica, imbracciava il suo M-16 e sparava come tutti gli altri. Non fu solamente testimone della sporca guerra ma vi prese attivamente parte: partecipò alla sanguinosa battaglia di Hue del 1968, raccontata sia nel suo romanzo che nel film di Kubrick.
Tornato in patria l’ex-marine cerca di iniziare una carriera come scrittore, frequentando dei seminari di scrittura creativa, i Clarion Workshop, riservati a chi si cimenta nella fantascienza. Non a caso le primissime opere di Hasford furono racconti fantascientifici pubblicati su riviste specializzate tra il 1972 e il 1977. Il primo a notare le qualità letterarie del giovane autore fu uno dei mostri sacri della fantascienza, Robert Silverberg, che insegnò in uno di quei seminari; e nel 1978 fu l’incontro al Milford Writer’s Workshop con un altro fantascientista carismatico, Frederick Pohl, a consentire a Hasford di pubblicare Nato per uccidere. Pohl lavorava come editor per Bantam Book, e letto il manoscritto disse subito al suo autore di mandarlo in casa editrice. Alla sua uscita la critica lo trattò benissimo, ma vendette solo qualche migliaio di copie. Oggi in Italia sarebbe un bel risultato per un esordiente, ma negli Stati Uniti di fine anni Settanta era quasi un flop; prova ne è che nel 1982 il romanzo era già fuori stampa.
Poi l’imprevisto: Stanley Kubrick legge su The Virginia Kirkus Review una recensione del romanzo, che lo paragona favorevolmente a Dispacci di Herr – libro che il regista ben conosceva perché Herr era amico suo. In quel momento Kubrick era a caccia di un’idea per il film che avrebbe dovuto realizzare dopo il successone di Shining, e si mette a leggere Nato per uccidere. Deve aver fatto un certo effetto sul regista, questo romanzo compatto e denso come una pallottola: la brutalità della guerra, la devastante ironia sulla propaganda americana, il disprezzo per i pogues, cioè i militari delle retrovie che non rischiavano niente, il ritratto tutt’altro che eroico dei combattenti, il tutto scritto nella stessa lingua della quale facevano uso, il gergo assai particolare dei marine, e mi chiedo che fatica improba sia stato volgerlo in italiano per il povero Paolini in epoca pre-Internet.
La storia è di fatto una discesa all’inferno: prima l’addestramento a Parris Island, dove Joker e compagni sono bullizzati dallo spietato sergente istruttore Gerheim (attenzione: i nomi non sempre corrispondono a quelli del film); poi in missione a Hue con la squadra guidata dal suo compagno di addestramento Cowboy; infine, dopo un diverbio con un ufficiale, Joker viene trasferito dall’Informational Services Office della Prima Divisione a una squadra di fanteria nell’inferno di Khe Sanh, non più tra i marine che scrivono ma tra quelli che combattono e muoiono (di solito male), quelli che vengono chiamati grunts (e questo è il titolo originale della terza parte di Nato per uccidere). La storia non si chiude con i soldati che marciano cantando la canzone di Topolino (quella scena c’è ma avviene a Hue, pressappoco a metà del romanzo), bensì con il momento in cui la squadra di Cowboy e Joker va in perlustrazione nella giungla e finisce sotto il tiro precisissimo di un cecchino che ferisce uno dei soldati, e poi colpisce tutti quelli che tentano di andare a soccorrerlo, incluso Cowboy; Joker, che è il più alto in grado dopo il suo amico, capisce che il cecchino è fermamente intenzionato a ucciderli tutti, uno ad uno, man mano che si espongono alle sue pallottole nel tentativo di salvare i compagni feriti. A questo punto non gli resta che una cosa da fare: uccidere Cowboy, il suo migliore amico, e riportare a casa il resto della squadra, senza poter vendicare i caduti, come a dire che la guerra è persa, e il cecchino (metonimicamente i Viet Cong) ha vinto. È una scena straziante e terribile, e materializza la perversione dei rapporti umani causata dalla guerra, per cui uccidere diventa paradossalmente un atto di carità; atto che Joker compie due volte, dato che in precedenza ha sparato alla cecchina vietnamita che aveva inchiodato la squadra alla quale era aggregato a Hue (nel film questi due episodi sono stati fusi in uno solo).
Però Hasford non si impietosisce solo per i soldati americani, stile Platoon: ci viene detto chiaramente che la prima persona accoppata da Joker in Vietnam era un vecchio contadino che non aveva fatto niente di male, ammazzato semplicemente per paura. Nel romanzo serpeggia la consapevolezza che i marine si trovano all’inferno perché qualcuno li ha mandati dove non avrebbero dovuto essere, a combattere uno dei tanti conflitti caldi della guerra fredda; e che i vietnamiti sono altrettanto vittime della situazione, se non di più.
Il romanzo si legge in un fiato, ma ha le sue complessità. Tanto per dirne una, il rapporto tra Joker e Cowboy: il secondo sembra una sorta di doppio del primo, come un alter ego la cui uccisione sembra materializzare il danno psicologico subito dal protagonista, come se nella giungla fosse morta una parte di lui (e non sarebbe troppo azzardato ipotizzare che questo sia accaduto anche all’autore, viste le numerose somiglianze tra lui e il suo personaggio). E Joker uccide per pietà due volte: la prima volta una Viet Cong e la seconda volta un marine, come se entrambi fossero vittime della macelleria vietnamita, ed entrambi degni di quella terribile forma di carità – senza distinzioni. E l’ultima battuta del protagonista (sempre pronto a scherzare su tutto, da cui il suo soprannome), è Man-oh-man, Cowboy looks like a bag of leftovers from a V.F.W. barbecue. Of course, I’ve got nothing against dead people. Why, some of my best friends are dead! [Mamma mia, Cowboy sembra un cartoccio di avanzi di un barbecue dei veterani di guerra. Naturalmente non ho niente contro i morti. Anzi, certi dei miei migliori amici sono morti!]. Il sottinteso è che questo resta della guerra, questi sono gli avanzi: cadaveri, e superstiti che si portano per sempre il ricordo di quelli che non ci sono più (V.F.W. sta per Veterans of Foreign Wars, un’associazione statunitense di ex-combattenti – associazione nata nel 1899 e sempre in attività, come si può ben immaginare).
Con il film di Kubrick arrivò la fama, e anche l’agiatezza perché, dopo un lungo tira e molla, il regista cedette e riconobbe i diritti di Hasford come sceneggiatore (no, non era proprio facile lavorare con Stanley); giunse così a un palmo dall’Oscar per il miglior adattamento, che andò invece a Bernardo Bertolucci e Mark Peploe per L’ultimo imperatore. Ma la storia dell’autore di Nato per uccidere ha un finale ben più tragico. Nel 1988 lo scrittore viene trascinato in tribunale per furto di libri, un’accusa partita da una sua ex-amante bibliotecaria; la polizia del campus della California Polytechnic State University trova in un deposito affittato ben 10.000 volumi e si convince che sono stati trafugati tutti da varie biblioteche universitarie, cosa vera solo in parte, ma una procuratrice distrettuale lanciata in politica decide che può farsi pubblicità elettorale mettendo sotto processo uno scrittore famoso, e ottiene una condanna a sei mesi, del tutto sproporzionata all’entità del furto. Hasford esce dal carcere piegato, e soprattutto alcolizzato. Inizia il suo inesorabile declino fisico e psicologico: il suo secondo romanzo, The Phantom Blooper, esce nel 1990; doveva essere stato in gestazione da tempo perché in Full Metal Jacket ne compare qualche frase che evidentemente Hasford aveva nella sceneggiatura. Purtroppo stavolta è un fallimento senza scampo, perché l’autore era entrato in conflitto con Bantam, la sua casa editrice, al punto che quest’ultima non promosse il libro. Hasford si ridusse a spedire lui lettere ciclostilate a critici e giornalisti, ma con magri risultati. Non è un caso se oggi la copia più economica del libro (desolatamente fuori stampa) è in vendita sul web a ben 200 dollari.
Il terzo romanzo, A Gypsy Good Time, pubblicato nel 1992, ebbe vendite praticamente insignificanti. Attualmente non se ne trova una copia in vendita, e questo la dice lunga. Si tratta di un noir della varietà hard-boiled, prodotto tardivo di uno scrittore in crisi che tentava disperatamente di reinventarsi, ma senza successo. Hasford chiude la sua vita, ucciso da alcol e diabete, in esilio autoimposto nell’isola greca di Egina nel 1993, all’età di 45 anni. Quello che non avevano potuto né i vietcong, né l’esercito regolare del Nord Vietnam, lo fece la giustizia dello stato della California.
Orbene, avendo noi illustrato l’opera prima di uno sventurato autore di seconda fila potremmo anche chiudere la pratica, non fosse che l’opera seconda è a tutti gli effetti il seguito dell’opera prima; The Phantom Blooper inizia con Joker assediato con gli altri marine a Khe Sahn, esattamente dove l’abbiamo lasciato alla fine di Nato per uccidere. A tutti gli effetti l’opera seconda è in realtà nient’altro che la seconda parte dell’opera prima, e nei piani di Hasford avrebbe dovuto esserci una terza parte, intitolata Exit Wound, nella quale il marine Joker è tornato in patria e fa il giornalista a Los Angeles – si sarebbe così realizzata una trilogia tra il romanzesco e l’autobiografico che avrebbe lasciato ben altro segno.
Dico questo perché The Phantom Blooper è senz’altro opera ben più sofisticata e ambiziosa di Nato per uccidere. La traduzione più aderente del titolo è “il lanciagranate fantasma”; blooper era infatti il nome gergale che i soldati americani davano al fucile lanciagranate M-79 che si vede all’opera in uno dei momenti più stranianti di Apocalypse Now, manovrato da uno spettrale soldato afroamericano, mentre sotto infuria un selvaggio assolo di Jimi Hendrix. Tra i soldati assediati a Khe Sanh circola una leggenda metropolitana, e cioè che ogni tanto un americano passato dalla parte dei Viet Cong appaia nel cuore della notte e col suo lanciagranate colpisca a sorpresa i suoi ex-commilitoni con inesorabile precisione, per poi sparire nel nulla lasciandosi alle spalle una risata agghiacciante. Joker dubita che la storia sia vera, ma in Vietnam non si sa mai; di fatto, dopo un attacco respinto dai marine, si lancia follemente all’inseguimento del nemico, ma viene colpito e perde i sensi, per poi ritrovarsi in un villaggio di contadini, tutti militanti con la guerriglia comunista nonostante si trovino ben dentro il Sud Vietnam.
Joker trascorre un anno prigioniero dei Viet Cong, e finisce con impararne la lingua e conoscerli bene. Si è notato che mentre i personaggi di Nato per uccidere sono rapidamente abbozzati da Hasford, che non ce ne racconta la vita prima dell’arruolamento (con l’eccezione di Cowboy e Joker), i vietnamiti di The Phantom Blooper sono a tutto tondo, e nient’affatto scontati o stereotipati. E soprattutto, il protagonista si rende conto che lui, figlio di una famiglia di agricoltori, ha molto più in comune con quei coltivatori di riso e guerriglieri che con i comandanti del suo esercito e i politici che li hanno spediti a fermare il comunismo in estremo Oriente. Insomma, in questa seconda parte Hasford ribalta la prospettiva, e dopo averci fatto vedere la guerra dal punto di vista dei soldati americani, ce la mostra da quello dei loro avversari, che ispirano un grande rispetto e una sincera simpatia in Joker. E la critica degli Stati Uniti si fa sempre più sferzante e a tratti rabbiosa. Joker, come Hasford, è un southerner, che attribuisce la miseria della sua terra al capitalismo predatorio degli Stati Uniti, ed eredita lo storico rancore del sud sconfitto nella guerra di secessione nei confronti del nord vittorioso (non a caso lo scrittore aveva una passione per la storia di quel conflitto, ne volle visitare tutti i campi di battaglia, e gran parte dei diecimila libri di cui sopra trattavano quell’argomento).
Il romanzo si conclude con il ritorno a casa, un ritorno difficile, come in tante storie di reduci, con la famiglia che non lo riconosce più, la cittadina che non è più quella dell’infanzia di Joker, l’America che gli ripugna. A quel punto il protagonista di The Phantom Blooper comincia a covare l’idea di tornare in Vietnam, in qualche villaggio dove si coltiva il riso. Sfortunatamente non sapremo mai se ci sarebbe tornato veramente nell’ultima parte della trilogia, quella che, ahinoi, non leggeremo mai. Però sarebbe bello se qualche editore illuminato (ce ne dovrà pur essere qualcuno) ripubblicasse Nato per uccidere (ultima edizione italiana nel 2002…) e – sognare non costa niente – facesse tradurre il suo sequel. In tempi di guerre come i nostri, sarebbe proprio il caso.