Svariati anni or sono nell’ambito della critica letteraria sorse il concetto di “morte del narratore”. Il dibattito originò dal seminale saggio di Roland Barthes La morte dell’autore (1967) e dalle considerazioni di Michel Foucault nel suo Che cos’è un autore (1969), che misero in questione la centralità dell’autore come fonte di significato. Per alcuni versi era stato preceduto dagli studi portati avanti dalla scuola di critica letteraria nota negli Stati Uniti come New Criticism, e si accese nel ventennio ’70‑’80. In quel torno di tempo la narratologia strutturale di Gérard Genette (che operò la distinzione tra “voce” e “narrazione”) aprì la strada a una più accorta analisi delle funzioni del narratore, e parallelamente la critica post‑strutturalista (il concetto di “spazio vuoto” del lettore proposto da Wolfgang Iser, dove la presenza del narratore può essere ridotta al minimo, il pensiero di Derrida, ecc.) e le teorie della metanarrazione (esempio emblematico alcune opere di Italo Calvino e di Jorge Luis Borges) mostrarono come la voce narrante di un’opera letteraria possa diventare un personaggio consapevole della propria finzione, entità non stabile ma elemento in fluida trasformazione, sino addirittura alla scomparsa.
Queste considerazioni riaffioravano mentre leggevo un breve “romanzo” di Marcello Galati, dal titolo ossimorico: Intervalli. L’assenza della presenza. Per più d’un verso appare come uno scritto “fuori epoca”, che si staglia sulla melassa di tante stucchevoli opere narrative odierne, incentrate sulle piccinerie del quotidiano e incapaci di uno sguardo storico, prive della benché minima consapevolezza di una tradizione letteraria. Nel suo richiamarsi (o alludere) al dibattito cui si accennava, il lavoro dell’autore mostra infatti una certa eccentricità, a partire dalla struttura: un apparente monologo, articolato in dodici agili capitoletti, che si rivela un soliloquio segnato, appunto, dall’assenza. Galati porta alle estreme conseguenze il discorso della “morte del narratore”: a mancare non è soltanto quello tradizionale, onnisciente o meno, ma financo l’interlocutore, la cui identità (comunque cangiante e mai determinata) varia in ogni capitolo, della cui presenza è anzi lecito dubitare: le storie e i personaggi solo accennati potrebbero essere quelli di una voce che articola i suoi discorsi in un vuoto, ma tremendamente lucidi nel tratteggiare un mondo di “assenze” e di “intervalli” – il nostro mondo.
Un concretissimo simbolo dell’assenza lo si trova nel capitolo VII, con il racconto della singolare sorte di Papa Formoso (siamo sul limitare del IX secolo), soggetto a un processo post mortem in quello che venne chiamato “Sinodo del cadavere”, il cui corpo fu disseppellito per essere processato “in presenza”, con la voce di un diacono a dargli vita – è storia, non invenzione! Così come è storia il ricordo della battaglia di Ypres durante la Prima guerra mondiale (nella quarta sezione), dove l’esercito tedesco impiegò per la prima volta l’iprite, e il successivo impegno di due scalpellini inglesi che avrebbero dovuto scolpire i nomi dei settantamila caduti sull’Arco di Menin, opera mai conclusa per lo scoppio del successivo conflitto mondiale: appunto un “intervallo” tra eventi bellici, che sinistramente richiama i fatti odierni del conflitto russo-ucraino e israelo-palestinese (e di infiniti altri) cui assistiamo con muto orrore senza la volontà di porvi fine.
La mutevolezza degli interlocutori fantasmatici che popolano queste righe si specchia in quella degli argomenti trattati. Non v’è dunque una trama univoca, ma una proliferazione di motivi sottilmente uniti da ricorrenze simboliche e da “personaggi” in bozzolo. In particolare, a legare storie, dialoghi e temi intessuti in nodi significativi v’è la figura del paradosso, suggestivamente anche evocata con il racconto erodoteo dell’“intervallo” di potere in epoca persiana risolto col nitrito d’un cavallo. Essa struttura ogni riga, ogni “episodio”, come nei reiterati e assurdi tentativi di suicidio messi in atto da un “amico” del narratore, o quelli di un tale che prepara con meticolosa tigna il proprio funerale nella speranza di unicità e della stima che gli verrà accordata nel ricordo postumo.
Paradossali non sono però i temi trattati, che la voce aggredisce con piglio filologico interrogando e mettendo in discussione i significati che conferiamo alle parole: lo sono i loro risvolti – l’impatto che hanno sulle nostre vite –, sempre calati nel quotidiano e nelle esperienze di chi ce li presenta, con quel suo “lasciarsi andare a ricordi”: dalla musica (Jimi Hendrix, la classica e il jazz), affrontata nelle varie declinazioni (concerto e ascolto, esecuzione e sua decodifica) all’antropologia, dall’eccezionalità dell’essere mancini all’Utopia, dallo sfruttamento capitalista della forza lavoro (amaro ed esilarante il capitolo IX in cui si ripercorrono i surreali ma concretissimi passi che portano ad un licenziamento) alla vita familiare (i rapporti filiali e matrimoniali), dalla malattia e dalla morte (e la sua presunta sconfitta, come si declama per le strade) alla religione (o meglio, alla religiosità), dalla filosofia politica alla meteorologia, dal cinema alla televisione, e così via. Brani di discorsi, abbozzi di racconti che, come si diceva, trovano concreto riscontro nella Storia, nel vuoto di valori dei nostri giorni – l’assenza per eccellenza – epitomizzato dalle insensatezze del fittizio universo dei social network. Insomma, una strategia stilistica che privilegia la frammentazione e la polifonia, messa in atto con una voce che, creando una sensazione di instabilità, disorienta, dando in pasto al lettore un testo polisemico per spingerlo ad una disperata ricerca di senso.
E così di passo in passo, sino al termine liberatorio, con quel “Ma chi se ne frega” e il richiamo all’importanza della materialità dei corpi e del loro reciproco donarsi – un’allusione al finale dell’ultimo capolavoro kubrickiano, Eyes Wide Shut? –, ideale coronamento di un “viaggio” nelle follie del mondo in cui, malgrado tutto, continuiamo a vivere e a proliferare.